“I viventi di Laudomia frequentano la casa dei non nati interrogandoli; i passi risuonano sotto le volte vuote; le domande si formulano in silenzio: ed è sempre di sé che chiedono i vivi, e non di quelli che verranno” (Italo Calvino – Le città invisibili).
Il tema della morte rimanda alla questione centrale da cui scaturisce la riflessione di Szymborska come quella di Calvino: la natura del Tempo.
Nella trama del tempo siamo tutti coinvolti, chiamati in causa come attori. L’essenza delle città di Calvino non risiede tanto nello spazio che occupano, quanto piuttosto nel tempo sul quale si distendono, modificandosi e conservandosi, evolvendosi senza perdersi. Sono città liquide, come direbbe Bauman, che si oppongono alle città solide della modernità e al modello organizzativo aziendale statico ispirato dal taylorismo. Ciò che accomuna le Città Invisibili, specie quelle della sezione Le città e la Morte, è la struttura essenziale della loro forma temporale; ciò che le distingue l’una dall’altra sono le diverse sfumature di tono di cui questa forma si colora a seconda delle differenti modalità esistenziali con cui ciascuna città vive il proprio divenire. In una intervista del 1985 Calvino parlerà proprio in questi termini, dicendo che le Città Invisibili “non sono altro che la forma del tempo”. In questo senso sembra davvero emblematica la descrizione di Laudomia, che lo stesso Calvino ci invita a immaginare come una sorta di grande clessidra (e così la dipinge anche Pedro Cano nell’acquerello ad essa dedicato). Laudomia ha la peculiarità di essere città tripla: la Laudomia presente e viva si trova in mezzo ad altre due Laudomie, quella dei morti e quella dei non nati, che altro non sono se non il suo passato, dove “tutto è diventato necessario, sottratto al caso, incasellato, messo in ordine”, e il suo futuro, luogo di sempre aperte possibilità. Senza queste due città contrafforte che segnano il suo orizzonte la Laudomia dei vivi non potrebbe essere ciò che è. Nel nostro romanzo collettivo Le Aziende In-Visibili, così Andrea Granelli espone il punto:
“Ogni azienda, come Virtualias, ha al suo fianco un’altra azienda i cui prodotti si chiamano con gli stessi nomi: è la dimensione digitale. Ma la speciale dote di Virtualias è d’essere, oltre che doppia, tripla, cioè di comprendere una terza dimensione: quella potenziale.
La dimensione digitale è l’immagine speculare dell’azienda, quella a cui è stata sottratta la componente materiale; è l’anima che vivifica i prodotti, ne consente un utilizzo facile e personalizzato, ne integra le prestazioni, ma può diventare facilmente il fantasma che rimane quando si prendono le pratiche correnti e non si ripensano ma semplicemente si dematerializzano: si automatizzano, digitalizzano, webbizzano; un eterno purgatorio.
Per sentirsi sicura Virtualias ha bisogno di cercare nella dimensione digitale la spiegazione di se stessa, anche a rischio di trovare di più o di meno. Chi lavora in questa dimensione spesso si dimentica di dover essere complementare agli altri, di dovere – con il suo contributo – completare e far evolvere l’offerta dell’azienda. Il rischio sempre in agguato è di pensare prodotti inutili e obsoleti, di considerare la dimensione materica – quella che si tocca, si accarezza, che occupa con dignità gli spazi della vita quotidiana – come retaggio del passato, come un oggetto ingombrante da sostituire con pura virtualità. E allora l’anima digitale, che potrebbe ravvivare i prodotti tradizionali, trasformarli in potenti strumenti narrativi che consentono di costruire storie appassionanti con l’utilizzatore come protagonista, si trasforma in fantasma e si aggira in un mondo tutto suo, fatto di spettri, di frustrazioni e di cultori della magia.
Nella dimensione potenziale invece – autentica caratteristica di Virtualias – abitano i sogni del futuro, le aspirazioni profonde, le volontà di cambiare il mercato, i deliri di onnipotenza. È questo il regno delle ricchezze intangibili, dei marchi, dei brevetti, della conoscenza scientifica che non si è ancora tradotta in prodotti, della conoscenza profonda dei consumatori che non si è ancora esplicitata. Il suo valore non è in proporzione al loro numero che si suppone sterminato anche se spesso è ignorato – un po’ per paura, un po’ per incapacità di misura.
Questa è la dimensione più affascinante e stimolante: fa sognare ma incute anche timore. È qui che si elaborano i futuri scenari. È qui che si costruiscono le nuove realtà. Quelli che lavorano in questa dimensione appaiono strani o perlomeno diversi: non si muovono secondo le regole, spesso parlano linguaggi incomprensibili, si vestono in maniera meno tribalizzata rispetto ai colleghi. Ma costoro sono tutti guidati da una grande passione e da una consapevolezza profonda: il futuro di Virtualias è nelle loro mani, anzi nelle loro menti. E questa consapevolezza li fa superare ogni ostacolo, li fa resistere al fatto di essere poco ascoltati, li gratifica nonostante i bassi stipendi.
La fantasia del creativo è un mondo di potenzialità che nessun prodotto finito riuscirà a mettere in atto; quello di cui facciamo esperienza vivendo è un altro mondo, che risponde ad altre forme di ordine e disordine; gli strati di immagini che s’accumulano sugli schermi dei computer come gli strati di colore sulla tela sono un altro mondo ancora, anch’esso infinito.
Sembra che il rapporto fra i tre mondi sia indefinibile e indecidibile: eppure il successo di Virtualias nascerà da un dialogo sistematico fra i tre mondi, fra tutte e tre le dimensioni, che consenta a chi frequenta quella immateriale di mantenere sì le proprie pratiche esoteriche ma di convergere verso un obiettivo comune, a chi naviga nella dimensione digitale di puntare sì alla smaterializzazione, ma solo di alcune parti diventando così il nuovo difensore del cuore materiale del prodotto. E, a chi lavora nella parte concreta e tradizionale di Virtualias, di recepire i contributi provenienti dalle due altre dimensioni senza snaturare l’anima della società, combinandoli in un unicum desiderato dai consumatori e di difficile replicabilità”.