Dalle Città Invisibili alle Aziende In-Visibili – 10, Nomi (Parte Seconda)
Le aziende si identificano con i loro nomi, con i loro loghi. Se non c’è piena coerenza fra la realtà vivente dell’impresa e la sua brand communication il disastro è assicurato. Come capita alla città di Irene che «è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia» e soprattutto a Pirra: la città che non sappiamo riconoscere perché smentisce le attese che il suo nome e il desiderio di visitarla avevano suscitato.
Il punto dunque diventa: come definiamo il senso dell’“oggetto” azienda? In esergo al suo ultimo meraviglioso carnet di viaggio dedicato all’India, Stefano Faravelli pone il testo di una antichissima storia sapienziale:
“Un elefante proveniente dall’India fu alloggiato in una stalla oscura.La gente che non aveva mai visto un simile animale si precipitò ad ammirarlo.Poiché non si vedeva nulla a causa del buio, le persone si misero a toccare l’animale.Uno di loro gli toccò la proboscide e disse: “Questa bestia è fatta come un tubo!”;un altro ne palpò le orecchie: “Lo si direbbe piuttosto simile a un ventilabro”; un terzo, toccando le zampe disse: “Neanche per sogno! L’elefante è tale e quale ad una colonna”. E così ciascuno di loro si mise a descriverlo a modo suo. Fu un vero peccato che non avessero una lampada per mettersi d’accordo”.
La lampada necessaria per costruire una visione il più possibile vicina all’essenza di ciò che i nomi designano individualmente è la loro condivisione attraverso un linguaggio comune. L’elefante oggetto del Safari (che in swahili significa Partiamo, viaggio, e contiene la stessa radice della parola araba isfar svelamento: e in greco la verità è l’a-leteia, lo dis-velamento, appunto), della ricerca del significato, può essere conosciuto, può divenire In-Visibile, solo attraverso i Nomi che noi diamo alle cose e la loro condivisione per il tramite del linguaggio che articola una narrazione.
Per questo motivo il nostro romanzo collettivo Le Aziende In-Visibili si apre (riprendendo l’analoga suggestione calviniana) con l’evocazione di un racconto, quello che il Direttore del Personale fa all’Amministratore Delegato del suo impero aziendale:
"È improbabile che Bill H. Fordgates si beva tutte le balle cacciate da Sam Deckard quando gli descrive le aziende visitate nelle sue missioni, indicandole una per una sull’Astrogramma e traendo auspici dal Libro dei Mutamenti Organizzativi, ma certo l’Amministratore Delegato della grande Corporation continua ad ascoltare il giovane (o forse giovanile) Direttore delle Risorse Umane – ubiquo ai casi aziendali, onnipresente anche sugli affari più tenebrosi – annoiandosi meno che con ogni altro manager.
Nella vita degli Amministratori Delegati c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata delle aziende, consociate e controllate, che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a comprenderle e a conoscerle; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore acre delle ciminiere fumanti sotto la pioggia sporca e del gas di scarico sputato dalla limousine che ci sta conducendo verso l’anonima suite in cui risiediamo; una vertigine che fa incrinare le procedure istoriate sulle pagine Intranet, arrotola una sull’altra le stampe delle mail che annunciano il franare dei concorrenti di sconfitta in sconfitta, e sbiadisce le carte da lettera intestate di imprenditori ignoti che implorano la protezione delle nostre divisioni avanzanti in cambio di tributi annuali in partecipazioni azionarie, immobili e denaro liquido: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro logo possa mettervi riparo, che il trionfo sui Consigli di Amministrazione avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.
Solo nei rapporti bicefali di Deckard, fidato Otro che batteva per lui le vie ecologiche della vite così come quelle del grano geneticamente modificato, nei bi-sogni espressi nelle sue relazioni quasi fossero innescati dall’ibrido motore mentale d’Osiride, o ricevuti misticamente tramite la console telefonica una e duplice della Iacco Enterprises, Bill H. Fordgates riusciva a intuire, attraverso gli stabilimenti e gli impianti di produzione destinati a crollare, la filigrana d’un frame così sottile da sfuggire a esalazioni inquinanti di livello ben superiore a quello ammesso dai Protocolli di Kyoto."
(continua)