Italian Factor

“Quale può essere il ruolo dell’Italia, del suo sistema impresa, della sua dimensione culturale, nello scenario di cambiamento radicale che giorno dopo giorno si dipana sotto i nostri occhi? Dopo vent’anni in cui il nostro Paese è rimasto ai margini della social innovation che sta cambiando il mondo, come possiamo da italiani affrontare questo cambiamento d’epoca? L’Italian factor per noi è la risposta a queste ineludibili domande.”

ItalianFactor

E’ questo l’incipit di Italian factor, l’ultimo libro scritto da Francesco Morace (in questo caso affiancato da Barbara Santoro), in cui ho ritrovato mirabilmente sintetizzate moltissime idee che con Francesco abbiamo discusso  spesso e che abbiamo applicato insieme in svariate occasioni (ad esempio, durante l’importante esperienza dell’Associazione The Renaissance Link, cui abbiamo dato vita con una dozzina di altri amici, fra cui la stessa Barbara Santoro, o nel corso della stesura a cento mani del romanzo collettivo Le  Aziende InVisibili, da cui viene il nome di questo blog).

 

Il libro si articola in quattro parti, corrispondenti a quattro diverse dimensione dell’Italian factor: la prima esamina la dimensione storica, dedicata alle epoche di rinascita dell’Italia; la seconda, la dimensione psicologica, dedicata a vizi e virtù italiche; la terza, la dimensione socio-culturale, dedicata agli orientamenti futuri; la quarta, la dimensione aziendale, dedicata alle best practice e ai possibili fattori di crescita e sviluppo; e si conclude con una visione economico-politica dedicata alla possibile attivazione dell’Italian factor.

 

Essendo impossibile riproporre in toto la ricchezza degli stimoli, dei concetti, delle proposte contenute in questo testo, ho chiesto direttamente a Francesco di approfondirne alcuni elementi, quelli più vicini ai temi ad entrambi cari dello Humanistic Management e dell’intelligenza collaborativa.

 

MM: Partiamo dal concetto di Umanesimo e Rinascimento. Perché sono così centrali nella tua visione?

 

F.M: L’Umanesimo e il Rinascimento segnano la frontiera della nostra sfida al futuro perché – pur costituendo la base del nostro DNA -, sono ancora largamente ignorati dalla maggioranza degli italiani. Siamo poco consapevoli del nostro patrimonio culturale: non lo apprezziamo e anche per questo non lo sappiamo raccontare. Se lo sapessimo fare l’Italia potrebbe diventare straordinario approdo estetico per consumatori globali. Tutto ciò sarà possibile se riusciremo a considerare con la dovuta attenzione l’Italian factor, cioè quel moltiplicatore di valore che saprà mettere a fattore la capacità immaginativa e la ricchezza intuitiva che permette agli italiani di nutrire il mondo con le proprie pratiche di felicità quotidiana. E’ da questo incontro felice che nasce la possibilità di un Terzo Rinascimento italiano, come è avvenuto con il Secondo Rinascimento “olivettiano” che abbiamo conosciuto negli anni 50 e 60. Ciò significa ridimensionare l’aggressività della pura finanza, risocializzare le dinamiche economiche e cercare nuove leve per gli investimenti nel progettare il futuro: trasformare la furbizia in strategia, definendo standard replicabili, valorizzando la politecnia e la multidisciplinarietà attraverso lo human touch, alimentando la complicità tra le generazioni, rivitalizzando la dimensione pubblica, anche attraverso una capacità di comunicazione globale.

 

MM: Nelle pagine iniziali del libro scrivi: “è necessario aprire l’impresa coinvolgendo anche i lavoratori, i collaboratori, l’intera comunità produttiva. Questo è già avvenuto, con successo, in alcune aziende italiane (basti pensare all’Olivetti di Adriano e al progetto Comunità, celebrati dalla Rai in uno sceneggiato seguito da più di 6 milioni di italiani nell’autunno 2013) ma nessuno ne ha davvero mai fatto una bandiera nazionale, un programma istituzionale”. Condivido in pieno: come sai ritengo che la trasformazione delle aziende tradizionali in social organization basate sullo sviluppo di community collaborative online e offline (ovvero in mondi vitali, per usare un altro concetto sociologico su cui la nostra riflessione converge) sia una chiave essenziale per fare ripartire l’economia italiana, attualizzando un modello, quello olivettiano appunto, grazie alla potenza di Internet. Dal tuo osservatorio quali ostacoli vedi nella realizzazione diffusa di questo processo? E quali opportunità?

 

F.M: Gli ostacoli che intravedo stanno tutti e solo nella nostra testa, nell’abitudine devastante allo scetticismo, all’invidia competitiva, alla conservazione a tutti i costi per non affrontare le sfide innovative, faticose per carità, che il futuro ci impone. Innovazione per me significa inserire delle qualità e dei talenti in un contesto specifico di grande cambiamento. Lo scenario globale che va definendosi richiede infatti una nuova capacità di confronto che l’Italia dovrà attivare, se vuole rimanere in gioco valorizzando le proprie qualità. La molla non può essere il semplice orgoglio nazionale che spesso in Italia si limita a una sterile strategia difensiva. Gli orientamenti paradigmatici (l’originalità, la sostenibilità, la tempestività, la condivisione) sono oggi il terreno su cui l’Italia deve dimostrare le proprie qualità: l’ingegno, il senso del gusto e del bello, la maestria, la tecno-artisticità. Questa convergenza produce un nuovo campo di azione per alimentare, sostenere, rafforzare, il carattere italiano nel mondo, e con esso la presenza delle aziende, degli imprenditori, ma anche dei singoli professionisti e ricercatori, che potrebbero finalmente esprimere il loro talento non in modo episodico e isolato, ma basandosi su una piattaforma organica. Le tecnologie digitali, ormai alla portata di chiunque, possono sostenere appunto questa piattaforma, condividendo e moltiplicando il valore che già siamo in grado di produrre.

 

MM: Due termini chiave dell’Italian Factor sono genius loci e convivialità, che costituiscono anche due pilastri fondamentali dello Humanistic Management, grazie soprattutto ai contributi portati da uno dei firmatari del Manifesto dello Humanistic Management, anche da te citato, Piero Trupia. Vuoi dirci in poche parole che ruolo svolgono all’interno della tua concezione dell’ Italian Factor?

 

F.M: Il genius Loci e la convivialità sono importanti perché sono tratti culturali che ci appartengono, e che possono aiutare le imprese a trovare la propria strada nella nuova arena competitiva. Noi lo vediamo tutti i giorni nelle attività di ricerca e consulenza con il Future Concept Lab: gli imprenditori cercano da noi argomenti e rassicurazioni. Il loro grande errore è quello di non ragionare in termini di visione strategica. Allora noi li aiutiamo a comprendere il loro genius loci, dimostrando che, a dispetto di quanto si dice e si legge sul sistema Paese, è proprio dal territorio che emerge la possibilità concreta che l’Italia e gli italiani giochino un ruolo rilevante in questo cambiamento, non solo a casa nostra ma nel mondo. Puntando proprio su quel genius loci che spesso si considera indebolito, sotto la pressione omologante della globalizzazione. Il genius loci definisce invece ancora oggi quel carattere unico delle imprese e dei prodotti italiani che ci fanno capovolgere lo slogan americano: think globally, act locally. Gli italiani fanno il contrario: pensano localmente ma devono dimostrarsi abili anche nell’agire globale, ampliando la propria sfera di influenza. Adottando la visione gramsciana dell’egemonia culturale. La convivialità in cui siamo maestri (ad esempio a tavola…) ci aiuta in questa sfida perché mette insieme il valore umano, l’intelligenza contestuale, il tocco d’artista e il tailor made. Un mix particolare di cui solo gli italiani sono capaci. Il fattore che moltiplica la potenza dell’italianità nel mondo (e potenzialmente di tutto il made in Italy e delle imprese italiane) include infatti il gusto, la relazione, il colpo d’occhio e l’attenzione al dettaglio: tutti elementi qualitativi, difficilmente misurabili, trainati dalla convivialità.

 

 

MM: Fra i casi aziendali che tu indichi particolarmente significativi delle possibilità connesse all’ Italian Factor, in particolare come espressione del principio del “Trust & Sharing” (essenziale per lo sviluppo di qualsiasi social organization) proponi YOOX. Perché?

 

Il caso Yoox – che ho avuto la fortuna di seguire fin dalla sua nascita scambiando con il fondatore Federico Marchetti opinioni e concetti -, è importante perché dimostra che la potenza del web può aiutare ad amplificare la qualità creativa e la comunicazione delle griffe italiane della moda, senza snaturarne l’anima e il nucleo di unicità. La penetrazione del digitale nei comportamenti globali di consumo aiuta le aziende italiane ad esserci laddove ci desiderano, elaborando nuovi strumenti e strategie di comunicazione e delivery.

 

MM: Ti chiedo un’ultima riflessione su un altro concetto chiave dello Humanistic Management, quello della metadisciplinarietà come capacità di abbattere le barriere fra gli iperspecialismi, esattamente nel senso indicato nel testo da te citato di Giuliano da Empoli nel suo Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo: «Gli specialisti dei mercati finanziari […] costruiscono modelli sofisticatissimi basandosi solo sull’andamento delle transazioni finanziarie, senza mai porsi il problema dei fondamentali […] la principale vittima del crollo del 2008 è la cultura dell’iper-specialismo», che altro non è se non l’estrema conseguenza della diffusione capillare del modello tayloristico, basato appunto sul principio della divisione del lavoro. Nel modello organizzativo post-(o meglio anti-) tayloristico della social organization e del social business questo si traduce nel concetto fondativo di Apertura (non a caso, uno dei quattro concetti base della Wikinomics di Dan Tapscott, diretta progenitrice della Socialnomics in cui ci muoviamo oggi).

 

F.M: Io dico sempre che la vera discriminante per definire un’azienda di successo oggi non sta nella sua dimensione (quanto si è discusso del “nanismo” delle aziende italiane, attribuendo molti fallimenti solo a questo fattore?) ma nella sua capacità di aprirsi al futuro: il problema non è essere piccoli o grandi, ma essere chiusi o aperti… Isolati o connessi… Si può essere molto grandi e proprio per questo arroccati sulle proprie posizioni di chiusura che porteranno al disastro, o molto piccoli ma vitali, versatili, dinamici, pronti alla crescita attraverso la condivisione. Non si tratta più di difendere “il piccolo è bello” ma di promuovere “il meglio del piccolo”: ecco la nuova strada per le aziende italiane al di là di Taylor che gli italiani non hanno mai davvero ascoltato, adottando invece il tailor made, la capacità “sartoriale” di essere vicini ai clienti.