Convention vecchie e nuove in tre atti – Alice annotata 34

Rodney matthews a causus race
Atto primo: Una corsa elettorale

“It’s my own invention”,  è la litania del Cavaliere Bianco, la cui solitaria creatività sembra sottrarsi a qualsiasi regola. In realtà, almeno per quanto riguarda la creatività di gruppo, neanche la totale assenza di regole garantisce la presenza di ottime performance. I gruppi creativi di successo operano in un contesto con un basso livello di burocrazia in cui la maggior parte delle regole presenti (cfr. Le regole della creatività – Alice annotata 33) sono accettate da tutti i suoi membri.

Abbiamo ad esempio parlato in questo senso della Netiquette che regola in Internet i rapporti fra le persone aderenti ad una Community. Peraltro, rispetto all’esigenza di raggiungere uno specifico scopo (la “value proposition” della social organization)   è importante fare in modo che le eventuali modalità “standard”, considerate utili per perseguirlo, siano non solo accettate ma in qualche modo anche personalizzate dai componenti dei gruppi di lavoro che le dovranno poi mettere in pratica. Sotto questo aspetto, una questione tipica è come retribuire la performance creativa, premiando da una parte il merito complessivo del gruppo, dall’altra la individuale capacità di realizzazione. Gli esploratori dei nuovi territori del Management 2.0    stanno individuando soluzioni fuori dall’ordinario, come ad esempio un “sistema a punti” che premia chi produce di più e meglio.

Così lo descrive Vlatka Hlupic – Professor of Business and Management all’Università of Westminster: “Reward employees with points when they make valuable contributions. The points provide a basis for compensation and perks. The advantages of a points-based system are:

the most valuable contributors gain the biggest rewards

only recent contributions count, so employees cannot “rest on their laurels” – the points lapse after 1 year

work becomes more fun, as the reward system is open and transparent (valori chiave dello Humanistic management 2.0)”.

E’ una soluzione possibile al problema che Alice e i suoi amici si pongono, una volta terminata la Corsa Elettorale (risultato del brainstorming svolto sulle rive del lago di lacrime che abbiamo raccontato in Dal Brainstorming all’Idea Management – Alice annotata 31): “But who has won?”, “Chi ha vinto?”.  La domanda, rivolta a quello che ormai è il leader del gruppo, il Dodo, è così complessa che “the Dodo could not answer without a great deal of thought, and it sat for a long time with one finger pressed upon its forehead (the position in which you usually see Shakespeare, in the pictures of him), while the rest waited in silence.”

Solo al termine di questa lunga cogitazione il Dodo esclama: “EVERYBODY has won, and all must have prizes”. Da una parte questa battuta è una satira verso il costume politico di allora (ma attualissimo direi) per cui al termine di una competizione elettorale tutti sembrano risultare vincitori, nessuno ammette la sconfitta. Ma a mio avviso qui c’è di più. Quando un gruppo creativo realizza un obiettivo, hanno vinto tutti e ciascuno deve essere premiato. Un approccio che ricorda il comunismo utopico descritto da Žižek e che del resto Empson già nel 1971 non esitava a paragonare alla totale anarchia di Cristo in contrapposizione al dogma della selezione naturale in economia prediletta da “the politically minded scientists” (scientific manager nel linguaggio del taylorismo): facile a dirsi, meno a farsi, come ben sa chi in azienda si occupa di premi di partecipazione, MBO, equità delle politiche retributive.

Calice comfit

La professoressa Hlupic descrive con queste parole l’empasse dei sistemi tradizionali: “The problem is that Scientific Management drove organizational design for the industrial age – where it worked very well in an environment where work was largely visible, standalone, and unchanging.  In this system, hierarchy became a proxy for contribution and the higher your level, the more prestige and compensation you received – regardless of the specific personal contributions.

Work in the Knowledge Age – where work is often invisible, interdependent and ever-changing — is ill-suited for this organizational paradigm when it comes to compensation.  For example, pay bands are too narrow relative to the large differences with knowledge worker contribution (e.g. genius programmers are 10,000 times more productive than average programmers).  Second, hierarchy is too inflexible for contribution-based compensation because it institutionalizes an environment where your past contributions are much more likely to explain your compensation than your current contributions – which is dangerous in a rapidly changing competitive environment.  Third, hierarchy-based compensation institutionalizes organizational blockage with bosses who are “fat and happy” after they become “king of the hill.” The result, is that there is not an organizational management approach to prove out the best ideas (and those that aren’t working) and successfully allocate scarce resources with fluidity in a rapidly changing global environment”.

Nel caso di specie, Alice scopre di avere in tasca una scatola di confetti: proprio uno per ciascun animaletto. Il nodo della premiazione è sciolto, fra il sollievo di tutti. A questo punto però, la logica meritocratica del gruppo esige che chi ha risolto questo specifico problema deve essere a sua volta premiato: But she must have a prize herself, you know,’ said the Mouse.`Of course,’ the Dodo replied very gravely.

E così l’episodio si avvia verso la sua conclusione: `What else have you got in your pocket?’ he went on, turning to Alice.`Only a thimble,’ said Alice sadly.`Hand it over here,’ said the Dodo. Then they all crowded round her once more, while the Dodo solemnly presented the thimble, saying `We beg your acceptance of this elegant thimble’; and, when it had finished this short speech, they all cheered”.

Un rituale che alla stessa Alice pare un po’ paradossale, ma che assume un suo preciso significato se ricordiamo quanto scrive il sopra ricordato Žižek a proposito del rapporto esistente fra creazione collettiva di senso (sensemaking) e liturgia: “Perché è necessaria la liturgia? Proprio a causa della precedenza del non senso sul senso: la liturgia è la cornice simbolica in cui il livello zero del senso viene articolato… non c’è opposizione tra liturgia (cerimonia) e apertura storica; lungi dal costituire un ostacolo al cambiamento, la liturgia mantiene aperto lo spazio per il cambio radicale, nella misura in cui essa sostiene il non senso significante che richiede nuove invenzioni di senso (di un senso determinato)”.[i]

Atto secondo: una convention aziendale

Parliamo dunque di una liturgia molto diversa da quella officiata nelle tradizionali convention, mirabilmente descritta da Francesco Varanini nel Manifesto dello Humanistic Management:

“Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra, portata la Legge davanti alla moltitudine degli uomini, delle donne e di tutti quelli che erano in grado di intendere, sulla piazza davanti alla Porta delle Acque, lesse nel libro dal mattino fino a mezzogiorno”. “Esdra, lo scriba, stava ritto sopra una tribuna di legno preparata apposta per la circostanza, e accanto a lui stavano in piedi, alla sua destra, Mattatia, Sema, Anaia, Uria, Elkia, Maaseia; a sinistra Fadaia, Misael, Malchia, Asun, Asbadddana, Zaccaria e Mesullam. Esdra aperse il libro davanti a tutto il popolo, perché stando più in alto dominava la folla”. La fonte biblica, il libro di Neemia, incide indelebilmente nella nostra mente questa scena: Esdra, il sacerdote, il ‘commissario ecclesiastico di Gerusalemme’, ritornato dall’esilio a Babilionia, in alto sul palco; accanto a lui schierati i rappresentanti del potere temporale. Nell’esilio Esdra aveva riscritto a suo modo la Parola, il vecchio Libro della legge, espungendo, sottolineando, censurando. Ora la folla lo ascolta. Lui parla come se possedesse la verità. Il popolo conosceva la propria storia, la conosceva a memoria. Non solo l’aveva vissuta, ma l’aveva creata in quanto opera letteraria, storia orale. Ma ora di questa storia, espropriata, conta solo la versione ufficiale, ri-scritta e poi letta dall’alto dal sacerdote.

E’ l’inizio dell’ortodossia rabbinica. Il luogo esemplare dove vediamo una volta per tutte in azione quella figura sociale che modernamente ci siamo abituati a chiamare ‘intellettuale’, ‘intellettuale di professione’. Una figura che, rileggendo la storia ed osservando il presente, vediamo apparire in ogni dove, in mille sfaccettature diverse – ma sempre con un univoco atteggiamento di potere, una univoca forma di hybris. È il sacerdote, ma anche il missionario; l’autore, ma anche l’interprete ed il censore. È, ancora, il manager, l’organizzatore, il consulente. È l’‘esperto legittimato’. Colui al quale è stato attribuito, o che si è arrogato, il compito di ‘far prendere coscienza agli altri’ di ciò che gli altri vivono quotidianamente. In base all’ipotesi che questo eletto Terzo sappia, meglio di chi vive l’esperienza, ciò che l’esperienza significa. In base all’ipotesi che questo eletto Terzo sappia meglio di chi deve compiere una scelta quale è la scelta migliore.

Come in un film ben montato, immaginiamo un repentino cambiamento di scena.

Immaginate di partecipare alla tradizionale Convention annuale. Sono invitati tutti i dipendenti. In un teatro, o nella sala convegni di un albergo, tutti sono stati riuniti per essere per essere informati ufficialmente dell’andamento dell’anno appena chiuso, e per ricevere dal vertice aziendali messaggi in merito al futuro che ci attende. Parlano il Presidente, l’Amministratore Delegato, il Direttore Generale, i Direttori di Divisione. Sono tutti schierati sul tavolo coperto di panno verde, in alto sulla pedana, ognuno con davanti il suo microfono e il suo cartellino con il nome. Non che ce ne sia bisogno. La folla conosce a memoria i loro nomi. Ma i simboli – metafore della distanza, della superiorità, del possesso della verità – contano. Come per Esdra e per Neemia e per gli altri esponenti del potere sulla tribuna di legno. Non c’è nessuna differenza.

Immaginate ora la schiera dei partecipanti, costretti a partecipare all’evento, e ad ascoltare. Ma inevitabilmente prevenuti, perché hanno già partecipato nel corso degli anni a troppi analoghi incontri, a troppe Convention sempre uguali l’una all’altra. Immaginate che gli organizzatori, per animare l’evento, abbiano invitato magari qualche velina. Immaginate che per tener desta la platea venga proiettato un video. Ma poi il momento nel quale i detentori della verità parlano giunge inesorabile.

Le prime parole bastano a confermare i timori: Presidente, Amministratore Delegato, Direttore Generale, Direttori di Divisione dicono le solite cose trite e ritrite. Ripetono, in fondo, come se fosse roba loro, come se fosse solo roba loro, cose che i partecipanti già sanno. La parola che descrive la vera vita dell’azienda, che tutti i partecipanti hanno contribuito a creare, è raccontata come se ci si rivolgesse ad un pubblico ignaro. Gli astanti – come il popolo ebraico – riconoscono un contenuto di verità in quello che dicono le persone sedute a quel tavolo, di fronte alla folla schierata, ma è la verità rivista ed interpretata dal punto di vista della difesa del potere. Una parte dei contenuti che sono alla base della situazione dell’azienda, e che tutti conoscono, sono stati espunti. Altre informazioni sono state edulcorate.

Questa operazione risponde a una precisa strategia comunicativa: una parte dei contenuti vanno nascosti. Alcune parole vanno taciute. Ma il progetto è poi eseguito attraverso supporti tecnici: Power Point. Così come parlare dall’alto di fronte alla moltitudine schierata porta ad essere enfatici, Power Point, pensato per costruire ragionamenti semplificati, spinge alla banalizzazione. Essendo stato creato lo strumento per questo scopo, anche al di là della immediata consapevolezza, usandolo indeboliamo in nostro discorso. Ragionamenti fatti di pochi punti chiave, elencati gerarchicamente. Via le parole troppo ricche di senso. La complessa vita aziendale, le articolate relazioni interne, il sofferto rapporto con i clienti, l’andamento economico, tutto è ridotto a semplicissimi schemi, ipersemplificati.

Così, ancora una volta, la speranza dei partecipanti di ascoltare qualcosa di nuovo e di veramente interessante –una parola pulsante, che esprima il sentimento collettivo, che valorizzi sinceramente il contenuto di tutti– va delusa. Come potranno i partecipanti evitare che il tedio, il fastidio, il disappunto traspaiano troppo evidentemente dai loro volti? Come potranno allo stesso tempo rendere meno noiosa la necessaria permanenza nella sala?

Ecco qui la grande idea del Bingo delle Cazzate. Pensate che ognuno dei partecipanti, in barba alla rigorosa organizzazione prevista dal responsabile della comunicazione interna, si sia dotato di una cartella da tombola, o da bingo, dove al posto dei numeri ci siano le parole, le frasi fatte, i luoghi comuni che presumibilmente verranno tirati fuori da chi sta parlando. Mission, valori, cultura, globalizzazione, minaccia della Cina, cultura del servizio, attenzione al cliente.

Ora, in cosa consiste il gioco? Ognuno dei partecipanti ha sulle ginocchia la sua cartella. Finge di ascoltare con rapimento le alate frasi di chi sta parlando, ma getta appena può lo sguardo sulla sua cartella. Ha buone probabilità, quindi, di fare ambo, terna, cinquina, tombola. Non sappiamo cosa vincerà. Nulla probabilmente – ma resterà la soddisfazione di aver smascherato la vanità del discorso (le regole per giocare al « Bingo delle cazzate » sono state dettagliatamente descritte in un numero di Hamlet da Luca  Varvelli, un altro firmatario del Manifesto dello Humanistic Management, ndr). Al testo ufficiale, alla narrazione della vita organizzativa ricostruita dal punto di vista del potere si risponde così con un gesto de-costruzionista. Scherzosa, ma anche disperata difesa della parte mancante nel racconto.

Poi, il buffet. Anche di questo avevamo già letto. È proprio Neemia, il governatore, a chiudere l’assemblea. “Questo giorno è sacro al Signore Iddio nostro: non siate tristi, non piangete!”

“Andate, mangiate vivande grasse, bevete bevande dolci”. “Allora tutto il popolo se ne andò a mangiare e bere e a farne parte a chi non ne aveva, abbandonandosi alla gioia, perché aveva ben compreso le parole che gli erano state fatte conoscere”.

Direte: nel passo biblico che ho citato non si parla dell’insoddisfazione del popolo. Si legge anzi che il popolo “si abbandona alla gioia”, “perché ha ben compreso le parole che gli sono state fatte conoscere”. E quindi, dove sta il parallelo con i demotivati partecipanti alla Convention?

Ma proprio questo è il punto: la Bibbia ci racconta la scena dal punto di vista di Esdra e di Neemia. Sono loro a raccontarcela. Essi vogliono convincersi, e convincerci, che il popolo è contento così. Hanno riscritto la storia dal punto di vista del potere. Nel libro che noi oggi possiamo leggere, c’è solo la loro versione. Come nei comunicati e negli articoli che appariranno sui giornali il giorno dopo la Convention aziendale, c’è spazio solo per la versione ufficiale.

Rendiamo merito alla professionalità di Esdra: ha fatto bene il suo lavoro. Le sue capacità sono il cuore della competenza che oggi riconosciamo a consulenti, comunicatori, manager. Quella competenza che ci si sforza di sostenere con corsi di effective speaking e di effective writing. Quella competenza che ritroviamo in Power Point, codificata, ridotta a scatola nera, riusabile da chiunque, sorta di pulpito portatile, virtuale.

Come se in un discorso non importassero il vissuto, l’emozione, l’empatia. Come se la parola di uno, ben impostata e costruita ad arte, bastasse a dar voce alla moltitudine. Come se l’efficacia della comunicazione fosse delegabile a una un software.

La costruzione della storia dal punto di vista del potere – Esdra e Neemia che dall’alto del palco impongono la loro versione, e vogliono vedere, debbono vedere, tutti contenti – è operazione legittima. Ma la documentazione dei fatti, la narrazione, la lettura degli eventi, l’espressione del giudizio e del commento e del dolore e della gioia non si riassume in questa operazione.

Al di là di ogni operazione comunicativa costruita dal punto di vista del potere, resta la meravigliosa, misteriosa ricchezza della letteratura, di un certo tipo di letteratura.

Nello stesso testo biblico, in quelle stesse parole del libro di Neemia, possiamo trovare traccia dell’altra versione, sommersa: il punto di vista del popolo, la stessa storia raccontata da altre voci. E così accade anche per la nostra Convention: tra le righe dei comunicati ufficiali leggeremo, se vorremo leggerlo, anche il non detto, ciò che chi parlava ex cathedra non ha voluto o saputo dire. Quella versione della storia che comunque circolerà nei discorsi nei corridoi, alla macchinetta del caffè, in mensa, in mail scambiate tra partecipanti delusi, in scritti sulle porte dei cessi, forse anche in qualche comunicato sindacale.

Perciò non ci interessano testi ripuliti, ben confezionati, limati, frutto di accurato editing, ben costruiti in sequenza. Ci interessano i testi segnati da cesure, da discontinuità, inciampi, salti logici, pluralità di voci sovrapposte. Testi non rifiniti, non ancora sottoposti a cura redazionale: lì, anche e forse soprattutto dove le parole che abbiamo sotto gli occhi sembrano di primo acchito puro rumore, troveremo tracce di significati rimossi, di versioni censurate, di contenuti che lo stesso scrivente dubitava magari di potersi permettere di scrivere. Lì sta la conoscenza latente, la ricchezza nascosta della narrazione”.

Atto terzo: una conferenza nonconvenzionale  (immaginaria, ma mica tanto)

E’ un testo del 2004. Nove anni dopo, con l’esplosione del social networking, queste parole assumono un significato ancora più forte. Il caso di Luca Luciani, il famigerato ex manager Telecom, che durante una Convention esortava i venditori, con un linguaggio da caserma (non casualmente, la caserma essendo il modello primario di riferimento di ogni scientific manager) a seguire l’esempio di Napoleone a Waterloo ha fatto il giro del mondo su YouTube. Da quel momento, forse, le vecchie liturgie, anche in Italia, sono cominciate ad andare in pezzi. Oggi Barcamp, Elevator Pitch e conferenze nonconvenzionali stanno sostituendo le obsolete adunate oceaniche finalizzate a far “credere, obbedire e combattere” le masse indifferenziate dei dipendenti. Anche se i continui tentativi di strumentalizzare le “nuove liturgie” del social networking da parte di quella che abbiamo definito la #CastaDigitale (cfr. la discussione infuocata su La lobby degli influencer) sono lì a dimostrare che lo Scientific Management è ancora vivo e vegeto.

Ma, come nota il Petrus de La Mente InVibile, la caserma è “un mondo perfetto, una ‘Istituzione Totale’, sistema chiuso e formalmente amministrato. Mondo perfettamente prevedibile pertanto, contro il quale la guerriglia del mondo vitale dei dipendenti senza potere, purché dotati di una robusta trascendentale fede, può avere la meglio”. Ancor più se, oltre alla fede nella possibilità di creazione di un significato condiviso, hanno anche qualche profilo sui principali social network, dove non solo le Cazzate del buon vecchio Bingo diventano istantaneamente worldwide, ma in cui le persone possono fare emergere le verità nascoste dal Management 1.0, discuterle, contraddirle, ricontestualizzarle. Come nella convention autoconvocata che diviene un mashup di concerto rock, reading, evento transmediale, dell’incipit de La Mente InVisibile:

“17 Allora il popolo autoconvocandosi attraverso Twitter si radunò in un battibaleno presso la stazione centrale  della metropolitana, sulla piazza davanti ai cancelli della Dreamcorp, verso cui confluivano e da cui defluivano tutti i percorsi sotterranei. Chi non poteva essere fisicamente lì seguiva l’Evento collegandosi ad un computer o ad una televisione con il proprio brainframe. 18 Sulla piazza Sam Deckard, dal tramonto del sole  fino a mezzanotte,  lesse il Libro delle Storie di New Nantucket,  dal titolo La Mente InVisibile, in presenza reale o virtuale degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere. 19 Deckard stava sopra un palco e accanto a lui c’erano, a destra, Phil, Yara, Petrus, Seamus; a sinistra, Omar, Ox, Ben, Susan e il Giustiziere. 20 Deckard aprì  il suo iPad per leggere il Libro. 21 Deckard e la band The Living  Mutants Society (Limited Edition), composta da Phil, Yara, Petrus, Seamus, Ox, Omar, Susan,  il Giustiziere  e Ben,  interpretavano il Libro accompagnandosi con chitarre elettriche, basso, batteria e altri strumenti.  22 Essi leggevano, recitavano o cantavano a turno il Libro un brano alla volta, mentre gli altri  suonavano la musica di accompagnamento più appropriata: rock, pop,  jazz, lirica o classica. 23 Il Libro era distinto in undici Capitoli e in ogni Capitolo vi era un Episodio di ciascuna delle undici Storie: quella dello stesso Deckard, quella di Phil e Charles, quella di Yara, quella di Petrus il Vecchio, quella di Omar,  quella di Seamus, quella del Giustiziere, quella di Ox, quella di Petrus il Giovane, quella di Susan, quella di Ben. 24 Solo la Storia di Deckard aveva due Episodi per ogni Capitolo, uno in apertura e uno in chiusura. 25  Dopo pochi minuti dall’inizio dello show, Deckard e gli altri storyteller dissero: «Non fate lutto e non piangete!». Infatti inizialmente il popolo, mentre ascoltava le loro  parole e sentiva la loro musica, piangeva, inviava messaggi di scherno via sms o twittava pieno di angoscia domande che venivano riprodotte a caratteri cubitali sui maxischermi: perchè il Libro era difficile e oscuro  e  asincrono e blasfemo  e pieno di enigmi, orrore e sangue. 26 Ma quando Deckard e gli storyteller finirono di leggere, suonare e cantare, tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a iscriversi al Gruppo di Facebook La Mente InVisibile e a programmare nuovi Eventi per la Community InVisibile, perché aveva compreso le parole che erano state lette e aveva conferito il proprio Like a Deckard e a The  Living Mutants Society (Limited Edition)”.

Alice annotata 34. Continua.

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[i] Zizek, cit., p. 523.