Il mondo del non profit e il web 2.0: un rapporto difficile da costruire senza ricambio manageriale

THINK! The Innovation Knowledge Foundation, in collaborazione con Informatici Senza Frontiere e il Dipartimento di Informatica Sistemistica e Comunicazione dell’Università degli studi di Milano Bicocca, ha diffuso nei giorni scorsi il primo Rapporto di un Osservatorio a cadenza annuale costituito “con l’obiettivo di monitorare la realtà del non profit in generale e con particolare riferimento agli aspetti della diffusione delle tecnologie ICT nel settore: ciò nella convinzione dell’utilità delle tecnologie per lo sviluppo delle attività del settore e della necessità che l’industria del settore ICT guardi al terzo settore in una prospettiva differente”. 

Si tratta di documento molto interessante per tutti coloro che si occupano di social innovation e condividono il principio secondo cui “si ha innovazione sociale quando nuove idee che funzionano (new ideas that work) danno soluzioni a bisogni sociali ancora insoddisfatti” (Geoff Mulgan) e nello stesso tempo promuovono il ruolo  attivo di persone (consumatori, cittadini, ma anche istituzioni e organizzazioni) nella realizzazione concreta dei processi di innovazione. Come ho avuto modo di ribadire anche nel contesto dell’indagine Delphi 2.0 La rivoluzione social e le aziende, con questa definizione di innovazione sociale possiamo raccogliere fenomeni e processi creativi  molti ampi e diversificati che vanno dall’imprenditorialità sociale all’educazione a distanza, dai movimenti per il riconoscimento dei diritti delle donne alle riforme sanitarie e pensionistiche, dai nuovi modelli di sostenibilità alle pratiche collaborative sui codici open source. L’azienda socialmente responsabile deve sapere entrare in rapporto proficuo e creativo con tutto questo mondo, nel quadro di apertura, collaborazione e co-creazione del valore che connota la trasformazione delle organizzazioni più avvertite nel segno dei nuovi modelli manageriali 2.0 (vedi su questo anche la serie di post dedicati alla social organization). Un mondo, quello del non profit, estremamente variegato, ma nel suo complesso rilevante anche dal punto di vista economico: oltre 235.000 organizzazioni (che vengono accuratamente mappate e suddivise in tipologie descritte dal punto di vista normativo nelle loro specificità in un chiaro saggio introduttivo di Alessia Fossati), circa 490.000 addetti, oltre 3.200.000 volontari e milioni di cittadini utilizzatori dei servizi resi disponibili dalle organizzazioni, e con un giro di affari (già nel 1999) di 75 mila miliardi di lire.

Il Rapporto documenta tuttavia una realtà con significativi punti di debolezza: la legislazione è frammentata e non organica, mancando una sorta di “legge quadro” complessiva che ne regolamenti tutti gli aspetti, non prevalentemente solo quelli fiscali o quelli di basso profilo organizzativo; il legislatore “è andato a creare nuove tipologie di enti non profit con differenti regimi fiscali agevolativi, senza tuttavia caratterizzarle sul piano funzionale”. Dal punto di vista dimensionale il settore presenta grande variabilità, con però una netta prevalenza di realtà di dimensioni molto limitate in termini di risorse sia umane sia economiche, che ne evidenziano l’intrinseca debolezza. La diffusione delle tecnologie ICT nel settore e le modalità del loro utilizzo sono, in linea di massima e ad esclusione di rare eccezioni, riconducibili alle organizzazioni di maggiori dimensioni, tali da far ritenere che le organizzazioni non profit tendano ad avere con l’ICT un rapporto puramente marginale.

Il quadro che emerge indica delle possibili linee di soluzione: innanzi tutto la necessità di diffondere una cultura “dell’utilizzo della tecnologia”, cultura che oggi invece manca, sostituita da una sorta di timore della complessità della tecnologia; in secondo luogo la necessità della diffusione del concetto che “tecnologia non significa costi elevati”, ma che al contrario sono possibili soluzioni a costo molto contenuto (nel testo si fa ad esempio riferimento alle nuove tecnologie ICT particolarmente “adatte” a realtà quali quelle del non profit); infine la necessità che gli operatori del settore ICT guardino al non profit come ad un mercato con esigenze specifiche e definite.

Più specificamente, interessante è l’analisi dei rapporti esistenti fra Terzo settore e Web 2.0, sviluppata nei saggi centrali del volume: Piattaforme social e Non Profit, un rapporto in piena evoluzione di Fabiola Valentini, Le organizzazioni del Terzo Settore ed il web 2.0: analisi quantitativa dell’impatto della rete sulla visibilità di Andrea Vanini, Analisi dei siti web delle ONG Italiane di Roberto Polillo e Francesca Pini.

L’analisi quantitiva in particolare è stata svolta su un campione rappresentato da 146 siti internet di altrettante organizzazioni non profit lombarde, estratte da un database disponibile online che prevede l’inserimento autonomo dei dati da parte delle organizzazioni stesse (noprofit.viainternet.org). Per ognuno dei siti internet sono stati raccolti  dati quali traffico mensile (misura della visibilità del sito), età del sito internet, numero di pagine indicizzate dai motori di ricerca, frequenza di aggiornamento del contenuto, la presenza di una pagina Facebook dell’organizzazione.

I risultati sono piuttosto sconfortanti: “non risultano rilevanti nè il livello di coinvolgimento nella rete delle pubbliche amministrazioni, nè quello con la rete fra le organizzazioni stesse. Questo risultato è spiacevole quanto atteso: spiacevole perchè indica quante poche interazioni online (nemmeno un link!) avvengano tra le organizzazioni, e tra le organizzazioni e le pubbliche amministrazioni, nonostante le frequenti interazioni offline e gli indubbi vantaggi offerti da internet; atteso, in quanto molte delle innovazioni del web 2.0 che facilitano queste interazioni, devono ancora raggiungere questi settori, nell’auspicio che il divario digitale possa rapidamente essere eliminato”.

In generale, dall’insieme di tutti gli approfondimenti proposti dal Rapporto emerge che vale per il 2.0 quanto visto per l'ICT nel suo complesso: il Terzo Settore è parte attiva della rivoluzione 2.0 soprattutto “tramite le grandi associazioni di stampo internazionale, che fin dai primi tempi hanno realizzato con entusiasmo la rivoluzione strutturale che Internet richiedeva per aderire a questo nuovo mondo. Tuttavia sono molte le organizzazioni che, pur avendo riscontrato quanto la tecnologia aiuti nel farsi conoscere come realtà del mondo solidale, non hanno ancora investito in maniera sostanziale nella comunicazione digitale. Si pensa, a volte, che la presenza del proprio ente su Internet sia un valore aggiunto, ma che non sia necessario; si crede che siano indispensabili molti mezzi per costruire on line l’immagine virtuale della propria associazione; a volte, semplicemente, si teme che il social web possa fare perdere il controllo su quelle che sono le direttive dell’organizzazione”. In sintesi, anche in questo contesto le logiche tradizionali dello Scientific Management 1.0 bloccano la possibilità di utilizzare tutte le potenzialità delle nuove tecnologie della comunicazione.

Il che, a costo di apparire politically uncorrect, conduce ad una conclusione obbligatoria: solo quando la gerontocrazia al potere un po’ ovunque nel nostro Paese lascerà spazio alle nuove generazioni potremo sperare in una evoluzione della situazione.  Non molto diversamente da quanto avviene nel mondo profit, solo un cambiamento radicale dei manager che occupano ruoli decisionali  può preludere ad un vero salto qualitativo nell’efficienza e nell’efficacia del composito universo del non profit: in entrambi i casi (profit e non profit) troppo spesso ultrasessantenni gestori delle posizioni chiave, magari anche di buona volontà, ma che hanno perso il contatto con la realtà sociale e le modalità di comunicazione che si stanno imponendo presso le singole persone e le comunità i cui interessi dovrebbero tutelare, rendono impossibile qualsiasi possibilità di trasformazione delle organizzazioni secondo le nuove logiche del management 2.0.

 

  • cristina |

    come se anche l’informatica fosse una delle tante lenti che focalizano in modo chiaro le occasioni perdute del non profit. Eppure è così..l’ICT potrebbe far crescere ma crescere significa cambiare e il non profit come la politica non è pronto.

  • Marco.Minghetti |

    Gentile Giuseppe, capisco bene. Per due anni (2009-2011) mi sono impegnato come Direttore responsabile social media di Fondazione Italiana Accenture a creare un ambiente collaborativo in cui potessero operare insieme aziende, associazioni, fondazioni, istituti formativi. Qualche risultato si è ottenuto, ma molto inferiore rispetto a quanto si potrebbe fare per le ragioni illustrate nel post ma anche per la incapacità delle stesse organizzazioni non profit a mettersi in rete, a condividere informazioni e opportunità. Spesso su uno stesso territorio abbiamo una miriade di micro organizzazioni che hanno la stessa mission (o una molto simile) ma tutte operano nell’ottica del più classico “ognun per sè Dio per tutti”. L’italico individualismo, la cura del proprio particulare,la diffidenza verso l’altro purtroppo trionfa, per quanto paradossalmente, anche nel contesto che dovrebbe “naturalmente” essere portato alla collaborazione per realizzare il bene comune.

  • Giuseppe Nenna |

    Caro Marco, ormai quasi 6 anni fa immaginavo si potesse costruire qualcosa che oggi chiameremmo “un ambiente smart” applicato alle esperienze ed alla mappatura dei volontariati.
    Mi auguro che questo social social network basato sul tracciamento e la condivisione delle informazioni possa un giorno o l’altro venir fuori.
    Ma la fatica di spiegare a chi potrebbe trarne il più grande giovamento, in termini di servizio, volontario o privato sociale, ed in termini di qualità delle informazioni veicolate dalle esperienze [i comuni cittadini, tra cui io e lei] è inenarrabile.

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