Dal Modernismo al Postmodernismo: sei lezioni, di Leonardo Terzo. 4. Le arti

They have come out

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leonardo Terzo, They Have Come Out, 2011

4. Le Arti

Ogni epoca ha le sue arti e i suoi generi dominanti. Nel modernismo il genere letterario paradigmatico della letterarietà era la poesia lirica, così che anche il romanzo, per esempio Joyce, Virginia Woolf, Proust, Kafka, Henry Miller, tendeva ad esprimersi con una scrittura poetica, cioè ad un alto grado di elaborazione formale. Per esempio tendeva a costruirsi sul principio dell’associazione, invece che su quello della consequenzialità causale.

Nel postmodernismo invece le arti privilegiate sono l’architettura e la narrativa, così che, mentre prima era il romanzo che tentava di costruirsi con una logica sperimentale come la poesia, ora è la poesia che tende a diventare poesia narrativa. L’architettura invece è significativa perché si rivolta in modo più evidente e spettacolare contro il funzionalismo dell’architettura modernista.

Il modernismo si identificava con le avanguardie storiche, e il concetto di avanguardia privilegia l’originalità e implica agonismo e antagonismo contro ogni poetica precedente, per cui le avanguardie, con tutti i loro “ismi”, a partire dall’impressionismo, si susseguono incessantemente dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino  agli anni ’60 del secolo successivo. Il postmodernismo invece non nega più ciò che lo ha preceduto, ma assimila e coopta sincretisticamente tutte le poetiche con due artifizi retorici: la citazione più o meno ironica e la parodia.

Fino al Rinascimento il criterio nel giudizio di valore nelle arti non era l’originalità ma il principio della pienezza, Un’opera letteraria e artistica era apprezzata per la sua capacità di contenere e riepilogare il maggior numero di riferimenti alla tradizione; era apprezzata quanto più fosse comprensiva dei valori e degli interessi collettivi. L’innovazione c’era lo stesso, ma era una conseguenza implicita del mutare delle condizioni del lavoro artistico e non era perseguita come fine dell’arte. Il postmodernismo non fa questo, bensì riutilizza il già fatto, ma dichiara di farlo con una consapevolezza che rende il riuso una citazione ironica. La novità sta nella consapevolezza di copiare: quello che una volta poteva essere plagio ora è citazionismo.

L’altro elemento caratterizzante è la testualità, e di seguito l’intertestualità. Per spiegare la testualità bisogna dire che il postmodernismo sostanzialmente non produce opere molto diverse per caratteri formali da quelle del modernismo, ma piuttosto ha un atteggiamento diverso nell’uso di tutti i costrutti culturali, artistici e no, del presente e del passato, come spiega Roland Barthes nel saggio “Dall’opera al testo”, 1971.

Ci sono però anche modi meno radicali di essere postmoderni, come per esempio la metafiction storiografica di Linda Hutcheon (The Politics of Postmodernism, 1989), che comprende romanzi come Cent’anni di solitudine, di Garcia Marquez, o Il nome della rosa, di Umberto Eco, nei quali Storia e invenzione si sovrappongono per attenuare, se non abolire, i confini tra di esse. A prescindere dalle opinioni degli autori, chi interpreta questi romanzi come postmoderni attribuisce loro un intento contrario a quello del romanzo storico tradizionale: non si tratta più di inventare una trama che serva a divulgare la conoscenza di un periodo storico, ma al contrario si usano i fatti storici nella finzione letteraria  per dimostrare che anche la storia è invenzione. Oppure ci sono opere che pongono a confronto la realtà con la fuga nella finzione, come nel film di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo, 1985. In esso, al contrario che in Madame Bovary, di Flaubert, 1856, si pongono esplicitamente a confronto vantaggi e svantaggi della realtà e della finzione: in quale delle due è meglio vivere? Questo tipo di opere pongono i problemi concettuali del postmodernismo in forme narrative del tutto comprensibili.

Per Barthes invece, per quanto possa essere innovativa e d’avanguardia, l’opera ha un senso in quanto appartiene a un genere, artistico o non artistico, non importa, come una commedia o un saggio, o un manuale ecc. In ogni caso, è la fruizione delle convenzioni di genere che ne fa qualcosa di definito e riconoscibile. In confronto al testo, l’opera ha una funzione; ha dei significati; ha dei confini definiti, per esempio un inizio, un mezzo e una fine, e una serie di altre convenzioni o artifici retorici che rendono evidente il rapporto fra tradizione e innovazione, e che sono offerti al fruitore con delle intenzioni prima o poi accessibili anche quando sono innovative. Pensiamo alle Demoiselles d’Avignon di Picasso, 1907, che inaugura il cubismo, e che a suo tempo poteva apparire opera problematica e ora tutti capiscono.

Per Barthes passare dall’opera al testo non significa necessariamente far ricorso a tecniche inedite; significa invece affrontare lo stesso oggetto che finora abbiamo chiamato “opera” con un diverso atteggiamento. Esso consiste nell’abolire la consapevolezza e quindi l’uso di tutte le precedenti convenzioni letterarie o non letterarie, ed entrare e rimanere nel testo, cioè nel discorso del tessuto linguistico, per fare un’esperienza che consiste nel giocare col linguaggio e goderne le potenzialità espressive.

Il testo non è né autoriflessivo come l’opera d’arte, né referenziale come i documenti e i messaggi della vita reale. Diventa invece una zona dove il fruitore esercita l’esperienza della lettura, che Barthes vede come un gioco, e quindi spensierata, mentre invece secondo me può essere anche disperata. Ad ogni modo questa esperienza, più che come decodifica, interpretazione e comprensione, è un’immersione con effetti di divertimento, e io aggiungo: con effetti di angoscia, per chi magari teme di affogare.

Il testo è un campo metodologico dove si scatena una forza sovversiva contro le classificazioni note, e una simbolicità senza fine: è il cosiddetto fluttuare del significante, per cui una parola, e il testo come insieme di parole, non ha più un significato stabile. E non solo può significare più significati, come nell’ambiguità modernista e nella polisemia semiotica, ma in teoria può significare ogni significato, se glielo si vuol dare, in pratica però rinviando (la “differanza” di Derrida) sempre questa attribuzione in un futuro, e lasciando un vuoto di significato nel presente.

Gli effetti pratici sono l’abbattimento delle distinzioni disciplinari e dei generi, sia fra le arti, sia fra le arti e gli altri saperi, e il fatto di attrarre l’attenzione sui processi di produzione e ricezione del linguaggio. Ne derivano anche l’intertestualità e l’interattività. È qualcosa che si esperimenta più concretamente nella navigazione in rete, e cioè con l’esperienza dell’ipertesto. Infatti  George Landow, teorico dell’ipertestualità e creatore di tanti ipertesti didattici e informativi, ritiene che i concetti del postmodernismo e della decostruzione, che possono apparire poco sensati in teoria, sono concretamente realizzati solo dall’ipertesto, dove il lettore costruisce il suo percorso di lettura non lineare, trasportato dall’umore e dalla curiosità contingente.