JACK IN THE BOX, QUANDO LA PROVOCAZIONE E’ SENZA GUSTO
Trasmettere l’esperienza di un coma di trenta giorni attraverso messaggi e video su Facebook, Twitter e Youtube può costituire un’intrusione dello sguardo indiscreto della rete in un dramma personale. E’ soprattutto un’esposizione violenta di una vittima inerme e incapace di reagire di fronte a quattro milioni di accessi online ai video che ogni giorno costituivano una specie di bollettino mediatico sulle condizioni di salute. Era stato aperto anche un sito internet dove pubblicare i video filmati sul letto d’ospedale e raccogliere i messaggi inviati da ottantamila utenti per testimoniare il loro affetto alla vittima e il loro incoraggiamento a risvegliarsi dal coma.
Già, il paziente. Un violento incidente automobilistico mentre va in onda il Super-Bowl americano è la causa del trauma. Ma la vittima non è uno sconosciuto che viene proiettato sulla ribalta grazie al web. E’ già un personaggio, un volto conosciuto. Anzi, è una maschera. Non nel senso della maschera usata da un attore. Questa volta è solo una maschera. E’ Jack in the Box, la mascotte della omonima catena americana di fast-food. Jack è in tutto e per tutto un essere umano reale, con un fisico sportivo e vestito in perfetto stile da ceo, sempre con la giusta cravatta. Parla con voce umana, prende decisioni sulla sua azienda, presenta i nuovi prodotti al pubblico ed è il protagonista degli spot commerciali – l’incidente in cui Jack finisce travolto da un autobus, lo scorso 1 febbraio, durante il Super-Bowl era parte di uno spot. E’ solo la testa che cambia, perché è costituita da un’enorme pallina da tennis con occhi e bocca disegnati sopra. Ecco Jack in the Box.
Jack è un perfetto manager che recita un copione infarcito degli standard della vita quotidiana – conformista e prevedibile. Jack non si risveglia grazie al (finto) calore umano dei suoi fan o ad un sussulto interiore. La scena è ancora più prosaica: Phil, il vice di Jack, annuncia di volersi sostituire al suo presidente e creare Phil in the Box. E’ a questo punto che Jack esce improvvisamente dal coma e si avventa su Phil per strozzarlo. Dalla finzione umana alla finzione grottesca.
La più plateale e inconfutabile rappresentazione della finzione s’interseca con il realismo di una tragedia anch’essa puramente fittizia. Eppure tutto lo spettacolo si regge sull’inganno che questa finzione sia vera. Verità o falsità, il coma di Jack in the Box ha risvegliato una straordinaria attenzione. In un solo mese il suo account su Facebook ha ricevuto undici mila richieste di amicizia; i suoi video su Youtube sono stati visionati da oltre quattro milioni di utenti e sono arrivati settantamila messaggi sulla bacheca per gli aggiornamenti sulle condizioni “cliniche” di Jack.
Questa massiccia campagna corrisponde alla strategia di conquistare la visibilità di Jack nel segmento dei social media, considerati il medium perfetto per raggiungere i suoi consumatori. Allora questa gigantesca messinscena comunicativa è solo una bolla, o balla, da marketing con tanta fantasia ma poche idee? Non era la prima volta per Jack “on the web”. Già nel 2006 Jack aveva inaugurato il suo Myspace includendo anche una biografia per strutturare in senso sempre più verosimile l’irrealtà di questo personaggio. Il marketing virale ha abbinato le tecnologie del social web con una narrazione scaltramente ingenua per intessere una rete di legami sociali volutamente artificiosi intorno ad un marchio storico ma anche contraddittorio. E’ difficile dimenticare lo scandalo per la morte di quattro bambini nel 1993 dovuta alla presenza del batterio dell’escherichia coli nel cibo di Jack in the Box. Perciò in questo caso il web è anche uno spazio per ripulirsi l’immagine pubblica umanizzando i gangli disumani delle logiche di profitto.
Solo per soldi? Se la metà degli iscritti ai messaggi di Jack su Twitter diventassero nuovi clienti, ognuno di loro dovrebbe acquistare all’incirca 850 panini per ripagare i costi di questa campagna online. Jack ha ridicolizzato il coma e le sue vittime. Presto la labile memoria collettiva del web strapperà questa pagina dal suo diario e forse neanche i conti del bilancio sorrideranno. Il web formato fast-food non ha un buon sapore.
GABRIELE CAZZULINI