Alice attraverso lo schermo (parte seconda) – Alice annotata 47

Vetrina, Schermo, Specchio

Nella Nota Alice attraverso lo schermo (parte prima) abbiamo cominciato a seguire Vanni Codeluppi nel viaggio “attraverso lo schermo” che costituisce il suo ultimo lavoro, L’era dello schermo.

Dopo averci fatto assistere alla nascita della distinzione fra realtà e rappresentazione nell’antichità (grazie soprattutto all'”invenzione” del teatro) e al suo rafforzamento in epoca moderna (attraverso Shakespeare, Cervantes, Cartesio), che preludono alla sua consacrazione nel corso del Novecento, l’autore arriva ad una tappa ineludibile di questo percorso: “quella vetrinizzazione sociale” che aveva descritto nel 2007 e di cui abbiamo parlato nei post Dalle Città Invisibili alle Aziende  In-Visibili – 6. Occhi (parte prima) e Dalle Città Invisibili alle Aziende In-Visibili – 7. Occhi (parte seconda).

“Un fenomeno che sta diventando sempre più significativo nelle attuali società ipermoderne, anche se le sue origini possono essere fatte risalire alla nascita della vetrina, la quale è comparsa per la prima volta in Inghilterra all’inizio del Settecento.

Vale a dire che il modello comunicativo imposto dalla vetrina, e basato sulla messa in scena spettacolare dei prodotti, si è progressivamente esteso a tutta la superficie di vendita dei negozi e ai   sempre più vasti luoghi di consumo che sono nati in seguito. Nel Novecento, con la nascita e il clamoroso successo planetario ottenuto dal modello statunitense del centro commerciale, il processo di  vetrinizzazione  si è ulteriormente rafforzato. Soprattutto, negli ultimi decenni si è presentato un processo di progressiva vetrinizzazione della società, cioè l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella logica di esposizione e di rappresentazione visiva che caratterizza le modalità comunicative  della vetrina. Ne deriva che gli individui, se si mettono in vetrina, si mettono nel contempo anche in scena. Imparano cioè a rappresentarsi al meglio all’interno dei numerosi schermi  che invadono la loro vita quotidiana”.

A questo punto il pensiero di Codeluppi prende una piega decisamente neoluddista. Gli schermi in cui si specchia la “generazione F” simbolicamente rappresentata dalla nostra Alice Postmoderna e Nativa Digitale (by the way, sapevate che uno dei primi giochi per Mac era ispirato ad Alice attraverso lo Specchio?), diventano luoghi ingannevoli, alienanti, regressivi: Internet spaccia la realtà virtuale per l’unica realtà possibile, i social network, ed in particolare Twitter, danno “l’impressione di essere introdotti all’interno del flusso informativo che conta, mentre in realtà si continua ad esserne irrimediabilmente tagliati fuori”, i fan non hanno alcun potere reale, eccetera.

Una serie di luoghi comuni che Codeluppi condivide con il “neorealista” Maurizio Ferraris, gli scientific manager,  leader conservatori come l’inglese Cameron (che ultimamente sembra essersi in parte ricreduto) o il turco Erdogan (che invece ancora oggi pensa che “i  social network siano “la peggiore minaccia della società”, dove è possibile trovare “le bugie migliori”) e i dittatori di tutto il mondo.

Stupidità del noi digitale o intelligenza collaborativa?

Sintomatica la conclusione dell’articolo scritto da Ferraris su La repubblica del 29 maggio, intitolato Il ritorno del noi: “A mio avviso è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”.

Perché le condizioni regolate della documentalità, quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità  dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità  dell’impegno vengono meno.

Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori  per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità  collettiva    chiaramente  ingannevole.

I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità  sono soggettive: già  una decina di “mi piace”  sembra indicare un consenso assoluto.

I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando  la convinzione del tribuno di aver ragione.

E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza  collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non  esageriamo,  di  gruppo”.

Non voglio arruolarmi nell’esercito dei tecnoentusiasti senza se e senza alla Riccardo Luna o Gianni Riotta, secondo cui il “web rende liberi” (sinistra assonanza con lo slogan che campeggiava all’ingresso dei campi di concentramento nazisti), ma ho già espresso più volte in questo blog le mie obiezioni al pensiero di Maurizio Ferraris con particolare riferimento alle valutazioni espresse nei confronti del web 2.0 (cfr. ad esempio I nostalgici del pensiero forte – Alice annotata 22b) e, viceversa, ho affermato l’idea secondo cui anche Facebook può diventare un  “mondo vitale” (vedi anche: Il Social Network è un Mondo Vitale?) a condizione che si rispettino i 5 principi cardine (co-generazione dei significaticoinvolgimentoconvivialitàconvocazionecura) che consentono di generare quell’intelligenza collaborativa che descrivo nell’ultima parte del libro L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization” e che propongo come antidoto alla “stupidità diffusa” fondamento e al tempo stesso effetto del dilagante scientific management responsabile della crisi economica e morale attuale molto più di Internet e dei Social Network. Come del resto è stato scritto anche recentemente su La Lettura del Corriere della Sera, il neorealismo appare sempre più chiaramente come “un nuovo populismo“.

Una conferma della bontà delle nostre tesi ci viene dallo stesso quotidiano La repubblica, che il 1 giugno ha pubblicato un articolo di Massimiliano Bucchi dal titolo “La solitudine dell’esperto” che descrive come la bolla informativa creata da Internet “annulla la conoscenza”. L’allarme arriva da una ricerca curata da due professori dell’Università di Cardiff. Il numero delle pubblicazioni è ormai fuori controllo. Non basta una vita per aggiornarsi: “la ricerca dell’Università di Cardiff stima che al ritmo tutt’altro che disprezzabile di un articolo letto al giorno (ovvero 250 articoli all’anno), la probabilità che il dottor Jones e un altro suo collega leggano lo stesso studio nello stesso anno è di 1 a 79. In altre parole, è sempre più difficile per gli esperti, anche in un settore specifico, trovare un terreno stabile, comune e condiviso di risultati; il risultato è una crescente frammentazione e divergenze che si manifestano sempre più frequentemente anche in ambito pubblico. Diventa infatti sempre più agevole, pescando in questo inesausto e sempre più articolato serbatoio informativo, sfidare e mettere in discussione pareri e competenze espresse dagli esperti su questioni di rilevanza pubblica. Questo contribuisce ad alimentare quella “crisi degli esperti” che si esprime ormai a vari livelli e in molteplici forme: dalla critica alle previsioni meteorologiche da parte di esponenti del mondo politico e imprenditoriale, al complesso intreccio tra competenza e responsabilità, fino al recente “Excelgate” che su blog e siti web di tutto il mondo ha messo in discussione un influente studio sul rapporto tra indebitamento e crescita economica, attribuendogli un macroscopico errore di calcolo”.

Il punto è che il web 2.0 spazza via il concetto di divisione del lavoro (fondante lo scientific management) e quindi la reificazione del sapere disciplinare specialistico, a favore di quello di metadisciplinarietà che proprio sfruttando le piattaforme collaborative può essere messa in pratica. Wikipedia ha avuto la meglio sull’Enciclpodia Britannica, l’autorevolezza sancita dalla community ha avuto il sopravvento sul medioevale “ipse dixit”, garanzia di un sistema di potere, prima ancora che culturale, gerarchico e assolutistico. Come si rende conto, sia pure confusamente, lo stesso Bucchi: “La portata del fenomeno appare tale da rendere difficile indicare una via d’uscita. Gli autori dello studio gallese si interrogano su come ridurre la quantità ed elevare la qualità delle pubblicazioni specialistiche, ipotizzando ad esempio nuove forme di diffusione dei risultati aperte e collaborative (“wiki”)”. Caro Bucchi e cari studiosi gallesi, qui non si tratta più di “ipotizzare”, si tratta di prendere atto che una rivoluzione cognitiva, economica e organizzativa è in atto: i ragazzi della “generazione F” lo hanno già capito da tempo, così come gli autori del Cluetrain Manifesto (1999) o, in tempi più recenti Dan Tapscott: è la Wikinomics  bellezza!

Alice annotata  47. Continua.

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