Social HR, avviso ai naviganti: come evitare il fallimento delle community online


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Ascesa e caduta delle community online

Mentre si avvicina la giornata inaugurale del Digital Festival di Torino, interamente dedicata a quella che abbiamo chiamato in questo blog “la primavera delle social hr“, appaiono sempre più frequentemente in rete post dedicati ad un tema centrale per chi è impegnato nella trasformazione dell’azienda in una social organization ispirata ai valori dell’intelligenza collaborativa: i numerosi fallimenti nell’istituzione e soprattutto nel mantenimento delle community online. Troppo spesso capita infatti che all’entusiasmo iniziale subentri la disillusione per il mancato ingaggio (“Engagement“) dei membri che dovrebbero dare loro vita.

Ad esempio, la case history Vodafone, raccontata dal Direttore HR Europa Gianluca Ventura nel volume di prossima pubblicazione L’Intelligenza collaborativa. Verso la social organization, inizia proprio con la confessione di un insuccesso: “Non sempre è sufficiente dotarsi di tools o piattaforme di social networking per ottenere immediatamente partecipazione e contributo da parte dei colleghi. Un fallimento personale ha accelerato questa convinzione.  Qualche anno fa abbiamo dato ai colleghi la possibilità di postare video e commenti sul nostro portale di formazione. L’obiettivo era quello di creare una o più community di apprendimento grazie a pillole formative create direttamente dai dipendenti dell’azienda. Immaginavamo una forte adesione, soprattutto da parte dei collaboratori con maggiore esperienzache avrebbero potuto fungere da trainer per gli altri colleghi. Non andò  così. Pochissimi avevano deciso di partecipare, il numero dei post si contava sulle dita di una mano”.

E’ una questione centrale per chi, come lo scrivente, ritiene che la trasformazione delle tradizionali famiglie professionali, dei team di progetto, dei gruppi di lavoro intra e interfunzionali in learning community sia la pietra di paragone di una organizzazione che voglia ripensarsi nell’ottica dei nuovi principi del Management 2.0 (vedi ad esempio le case history di HeraHeineken e Ottica Avanzi).

Non a caso si trova al centro delle riflessioni di autori come Bradley e McDonald (cfr. La social organization) e Morgan (cfr.  The Collaborative Organization. Parte Prima: Cultura e Tecnologia), ma anche dei ricercatori della School of Management del Politecnico di Milano che ad esempio, parlando del nuovo modello organizzativo dello Smart Working, scrivono nel rapporto del novembre 2012: «il modello richiede la riprogettazione congiunta di leve non solo tecnologiche, ma anche di natura organizzativa e gestionale, che possono essere raggruppate in tre categorie fondamentali: 1. bricks, ovvero il layout fisico degli spazi di lavoro; 2. bits, ossia la capacità di sfruttare le potenzialità delle tecnologie digitali per il ripensamento dello spazio virtuale di lavoro; 3. behaviours, in termini di stili di lavoro e policy organizzative, cultura del top management e comportamenti delle persone». Connessi sì dunque, ma non solo online: anche e soprattutto offline, in una rete di relazioni in cui le community e il community management giocano un ruolo centrale.

Del resto nel 2012 Gartner, pur parlando in generale di Brand Community, quindi community rivolte prevalentemente a consumatori e stakeholder esterni, ha previsto che entro il 2014 il 70 per cento di queste avrebbe fallito. Allo stesso tempo, l’uso di canali sociali continua a crescere. Significativo appare dunque, in questo quadro, un recente rapporto di Forrester (Understand Communication Channel Needs To Craft Your Customer Service Strategy, March 2013) dove si afferma che “le comunità on-line e Twitter hanno visto un aumento dei tassi di utilizzo negli ultimi tre anni. Tuttavia, la soddisfazione rimane bassa per questi canali, perchè le aziende non hanno investito in buone pratiche per la gestione delle interazioni su questi canali “.

Un decalogo di buone pratiche

Ed è proprio questo il punto, che interessa moltissimo anche chi si occupa di avviare e mantenere delle learning community all’interno delle organizzazioni. Vale dunque la pena di riprendere e commentare in chiave di Social HR  i suggerimenti proposti da Vanessa Di Mauro in un post pubblicato qualche giorno fa su Social Media Today.

1) Mantenere la centralità della value proposition. Strategia e obiettivi della community (in una parola: la value proposition) devono essere chiaramente articolati e radicati nelle motivazioni dei suoi membri per assicurare che la missione sia condivisa, la visione compresa e l’esecuzione resa possibile. Per ottenere questo risultato occorre lavorare a fondo (con strumenti quali l’Organizational Network Analysis, survey di gruppo e interviste individuali ai “campioni del cambiamento”, coinvolgimento di evangelist, redazione di policy e netiquette, eccetera) prima di avviare la community. Troppo spesso, invece, i programmi relativi all’istituzione di community aziendali sono focalizzati unicamente verso le priorità di business, senza tenere in minimo conto i valori e le motivazioni delle persone. “Facciamo una cosetta quick and dirty e vediamo come va”: questa è la frase tipica che conduce all’inevitabile fallimento. Chi la pronuncia dimentica che ogni community deve servire a raggiungere specifici obiettivi, ma senza la partecipazione attiva, l’Engagement, dei suoi membri non c’è community che tenga.

2) Scegliere bene i social tools. Le organizzazioni grandi e piccole hanno una propensione ad effettuare l’acquisto del social software  con cui devono lavorare le learning community senza una attenta analisi degli obiettivi di business, dei requisiti tecnici e delle preferenze dei membri della community. Il risultato è una comunity online che produce ciò che lo strumento consente  – e non ciò di cui l’azienda ha bisogno. Su questo vedi: Quale strumento per il lavoro collaborativo?.

3) Piantare tende da campeggio invece che costruire mausolei. Con questa metafora Vanessa Di Mauro intende indicare che il successo di una social organization passa per l’innovazione costante attraverso cicli iterativi, guidati dal feedback dell’utente. Le imprese sono spesso molto abili nella pianificazione a lungo termine: pertanto cercano di pianificare rigidamente anche il lavoro collaborativo delle community. Tuttavia, non solo ci si affida ad obiettivi generici, come vedremo meglio al punto 6, ma si è anche incapaci di dare al sistema di misurazione dei risultati la necessaria flessibilità. Questa è una ricetta per il disastro. Le community, per loro stessa natura, sono in una continua evoluzione che dipende dai bisogni mutevoli degli utenti, dagli obiettivi aziendali, dai miglioramenti continui delle tecnologie sociali, solo per citare alcune variabili. I programmi e i progetti delle learning commnuty dovrebbero concentrarsi su brevi sprint – non su quello che Di Mauro definisce “l’approccio Big-bang”. Nel mondo del social business, la pianificazione a lungo termine semplicemente non è  un’opzione. Occorre pensare in questo modo: costruire, imparare, evolvere, costruire, imparare, evolvere, costruire, imparare …

4) Porre enfasi sulla content curation. Il ciclo iterativo dell’innovazione richiede anche che un flusso costante di nuove informazioni attraversi la community. Ciò è particolarmente importante per le nuove community, in cui l’accesso a contenuti “insightful”, generatori di ispirazione e creatività, e idee provocatorie è decisivo per attirare  la prima volta i visitatori, farli ritornare indietro una seconda e, alla fine, ottenere un numero di membri sempre più numerosi e attivi. Coinvolgere sul contenuto è decisivo per costruire una comunità in crescita. Sull’importanza della content curation in una social organization vedi anche: Il Top Manager come Content Curator.

5) Migliorare la capacità di gestire la community.  Non si insisterà mai a sufficienza sulla centralità del community management e sulla necessità di dotarsi di una ampia gamma di nuove professionalità necessarie a sostenere l’evoluzione dell’azienda in social organization. Il community manager è un ruolo professionale ad alta specializzazione, non si può improvvisare. In generale gestire le relazioni online richiede esperti professionisti dedicati, con uno spettro molto variegato di competenze specialistiche, che non possono essere sostituite dalla buona volontà di giovani stagisti.  Vedi su questo Le nuove professioni della Social Organization.

6) Definire il ROI del lavoro collaborativo.  Il vecchio detto “si raggiunge ciò che si misura” è particolarmente vero per le social organization. Un errore diffuso nella gestione di learning community consiste nell’utilizzare metriche sbagliate – non quelle che contano per il business, ma quelle che sono più facili da gestire. Il numero di like in quanto tale non ci fa andare lontano nella determinazione del valore prodotto dal lavoro collaborativo. «La difficoltà nel giustificare gli investimenti e misurare i risultati – leggiamo nel Rapporto 2011 dell’Osservatorio Enterprise 2.0 del Politecnico di Milano – è una delle cause alla base della lentezza con cui le iniziative di Enterprise 2.0 si sviluppano nelle imprese. Fra le ragioni di queste difficoltà c’è senz’altro un oggettivo problema a stimare e misurare i benefici che sono in larga parte legati all’impatto sull’organizzazione e sulle persone, ma c’è anche una sostanziale assenza di metodi e approcci strutturati sulle imprese. Se nella fase di pianificazione strategica le imprese tendono a definire degli obiettivi generici spesso non legati ad indicatori chiari di performance, anche la misura ex post e la gestione delle performance degli strumenti 2.0 risulta un aspetto critico».

7) Non perdere di vista l’integrazione delle community. Mancanza di Business Integration, ovvero permanenza delle divisioni in silos organizzativi: questo è il più grande ostacolo in cui si trovano sovente ad inciampare tutti, sia coloro che sono alle prime armi con la gestione delle community online, sia coloro che hanno già maturato una esperienza considerevole. Per essere veramente efficace e prezioso, il lavoro di una comunità online deve poter essere utilizzato da tutti coloro che operano in azienda e allo stesso tempo i membri di ogni community devono poter conversare con i membri di altre community: per informare/essere informati sullo sviluppo di nuovi prodotti, sugli investimenti in ricerca, sulle relazioni con gli influencer e gli stakeholder, insomma  su tutti gli aspetti dei processi organizzativi su cui possono impattare direttamente o indirettamente. Quando si pone l’apertura come valore cardine della social organization, si intende anche questo.

8) Ottenere una forte sponsorship dal vertice aziendale. Qualsiasi progetto di innovazione ha bisogno di una leadership efficace e impegno da parte vertici aziendali. Il che significa ad esempio che si possono utilizzare meglio i social media: tanto per dirne una, usando Twitter o postando status update sui social portal interni per condividere idee sulle tendenze emergenti del settore di appartenenza, comunicare obiettivi e risultati, discutere dei nuovi prodotti. Più facile a dirsi che a farsi, come ha dimostrato la recente ricerca Lundquist sul rapporto fra Top Manager e Social Media. Ma non impossibile, come racconta l’AD di Nokia nel volume sopra citato L’Intelligenza collaborativa.

9) Diffondere una leadership convocativa. Tuttavia non basta acquisire dimestichezza con i mezzi, occorre modificare radicalmente il modello di leadership. La proposta dello Humanistic Management è quella di guardare allo stile di leadership convocativo descritto in Di cosa parliamo quando parliamo di #Leadership in una Social Organization.

10) Avere una visione strategica a livello di Top Management, tradotta in pratica dalla regia tecnica della Direzione HR.  Infine un ultimo punto, che riassume tutti quelli precedenti: l’avvio e lo sviluppo di learning community non può essere una operazione “tattica”, deve rientrare in un piano strategico ampio e articolato di change management del modello culturale, organizzativo ed operativo dell’azienda. Questa almeno è la lezione che Vodafone ha tratto dal fallimento descritto nel punto 1): “Dal fallimento dell’approccio quick and dirty, apparve chiaro che un progetto del genere avrebbe richiesto un approccio più strutturato e di grande impatto. Nel 2009 Vodafone ha lanciato il progetto Supermobile, un piano di cambiamento culturale e di formazione che ha riguardato tutti i dipendenti e che è tutt’ora in corso, con l’obiettivo di fare cultura sulle nuove tecnologie e di mettere tutte le funzioni aziendali nelle condizioni di lavorare con le nuove metodologie di comunicazione e di gestione dei dati che si vanno man mano affermando sul mercato… La sponsorship del piano è affidata agli amministratori delegati delle aziende operanti nei diversi Paesi mentre il coordinamento alla direzione risorse umane. Il processo di cambiamento prevede diverse aree di intervento: dalla comunicazione alla formazione passando per tutti i principali processi HR”. Così in sintesi, il racconto di Ventura. Chi vorrà, potrà ascoltarlo più compiutamente dalla sua viva voce il 3 maggio a Torino, insieme a quelli di altri importanti testimoni aziendali durante la tavola rotonda coordinata dalla giornalista de La Stampa Anna Masera.