Il Top Manager come Content Curator

Il Curatore sembra un buon diavolo: 

oggi mi ha offerto anche un caffè. 

Poi mi ha sorriso, dato che ero un po’ giù, 

e siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più

(Paolo Conte,   La ricostruzione del Mocambo)

La leadership 2.0 secondo McKinsey

Il Top Manager nell’era dei Social Network deve cambiare pelle, dicevamo in Di cosa parliamo quando parliamo di #Leadership in una Social Organization. Aggiungiamo oggi che se al centro delle sue responsabilità resta quella di essere il Curatore delle risorse umane, tecniche ed economiche dell’organizzazione, come abbiamo avuto spesso modo di ricordare (vedi alla voce “Cura” nel sito dello Humanistic Management 2.0), oggi cambia radicalmente il modo di interpretare questo ruolo.

La metafora contiana del Curatore che si limita “ad offrire un caffè” (leggi la classica “pacca sulla spalla”)  a dipendenti costretti nel Mocambo aziendale  (vedi Nota 1 a fondo pagina) dominato dall’incomunicabilità, conseguenza del   trionfalismo funzionale   tipico dello Scientific Management, indica bene un modello gestionale paternalistico ormai superato da tutti i punti di vista.

Lo conferma un articolo apparso sulla McKinsey Quarterly di questo mese: “ormai – leggiamo – il mondo degli affari così come l’intera società è stato pienamente investito dalla rivoluzione dei social  media.

Molte organizzazioni hanno reagitosfruttando le potenzialità delle tecnologie sociali per la vita aziendale: wiki, per consentire una più efficace collaborazione virtuale in progetti cross-funzionali; blog interni, forum e canali YouTube per incoraggiare conversazioni globali e la condivisione delle conoscenze; sofisticate campagne virali sui social media per coinvolgere i clienti e creare fedeltà alla marca; prodotti di nuova generazione sviluppati congiuntamente con gli stakeholder; sono tutti processi di  open-innovation    e di  lavoro collaborativo che i migliori  leader al mondo stanno utilizzando nel plasmare la loro strategia aziendale 2.0

(vedi su questo: 

Quale strumento per il lavoro collaborativo? – The Collaborative Organization, Parte Quinta  e Dalla Intranet 1.0 al Social Portal, ndr).

Questo cambiamento radicale ha creato un dilemma per i Top Manager: mentre il potenziale dei social media sembra immenso, i    rischi    inerenti creano loro incertezza e disagio… a causa della mancata corrispondenza tra la     logica dei media partecipativi e il tradizionale modello di gestione delle  organizzazioni, con la sua enfasi sui processi lineari e sul controllo.

I social media incoraggiano la collaborazione orizzontale e le conversazioni non scritte che viaggiano in percorsi casuali attraverso le gerarchie gestionali.

E  in questo modo creano cortocircuiti nelle dinamiche consolidate di potere e nelle linee di comunicazione tradizionali.

Noi crediamo che per sfruttare il potere di trasformazione dei  social media, attenuandone i rischi, si imponga un nuovo tipo di leader Le dinamiche dei social media amplificano l’esigenza di qualità che sono state a lungo un punto fermo di una leadership efficace, come la creatività strategica, di comunicazione autentica e la capacità di affrontare le dinamiche sociali di una corporation  per la progettazione di un’organizzazione agile e reattiva.

I social media aggiungono una nuova dimensione a queste caratteristiche. Ad esempio, si richiede la capacità di creare contenuti multimediali interessanti e coinvolgenti. I leader devono eccellere nella capacità di co-creazione e collaborazione – i valori chiave nel mondo dei social media. I dirigenti devono comprendere la natura dei diversi social-media, anche per capire le dinamiche che possono  scatenare, nel bene e nel male.

Altrettanto importante è la dimensione organizzativa: i   leader devono abilitare una nuova infrastruttura tecnologica legata alla progettazione collaborativa che promuove l’interazione costante di là dei confini fisici  e   geografici, un nuovo discorso e uno scambio autonomo, auto-organizzato (proprio quello che invocavamo nel Manifesto dello Humanistic Management   ormai quasi 10 anni fa, ndr)”.

L’articolo prosegue quindi, partendo dalla case history di General Electric, assunta come benchmark di questo nuovo approccio manageriale, nella descrizione delle sei skills che il nuovo manager deve possedere: in sintesi, la capacità di creare, distribuire e condividere “contenuti irresistibili”.

Il Web 2.0 come economia del dono e della cura

Vale quindi la pena di ricordare come questa rivisitazione delle competenze manageriali vada oltre la mera acquisizione di nuove “soft skills”, ma come affondi le sue radici nelle ragioni fondative del passaggio dalla impresa tradizionale alla Social Organization. In questo blog abbiamo abbiamo dato conto del pensiero di  Gary Hamel espresso in un post del novembre 2011. Fra i molti materiali che ha pubblicato in seguito, per dare rapidamente una chiara idea dell’impatto deflagrante del Management 2.0 sui modelli di leadership attualmente in uso, merita una menzione quello titolato The Facebook Generation vs. the Fortune 500, che richiama irresistibilmente quello da me dato ad un post di ormai quattro anni fa: Facebook vs HR. Non è una coincidenza. Hamel infatti rivolge la sua attenzione alle aspettative della membri della “Generazione F” – la generazione Facebook – nel momento in cui entrano in una organizzazione: un problema di competenza squisitamente HR. “Come minimo”, osserva lo studioso, “questi giovani si aspettano un ambiente di lavoro che rifletta il contesto sociale del Web, ben diverso da quello in cui sono destinati ad impattare e le cui caratteristiche sono ancora quelle di una burocrazia weberiana (intesa nel senso più deteriore del termine) risalente alla metà del 20° secolo. Se la vostra azienda spera di attirare i membri più creativi della generazione F, avrà quindi bisogno di capire molto bene queste aspettative, derivanti dal modello conversazionale imposto da Internet, e poi reinventare le sue pratiche di gestione. Un passaggio inevitabile: chi non avrà investito ora nelle competenze della generazione Facebook si troverà ben presto fuori dal mercato”.

Ciò premesso, Hamel ha compilato una lista di caratteristiche rilevanti della vita online. Questi sono i parametri di valutazione che i dipendenti utilizzeranno sempre più frequentemente per determinare se la loro azienda si è adattata alle sfide del Management 2.0, post-burocratico e conversazionale. Nella preparazione di questo breve elenco, spiega Hamel, “non ho cercato di catalogare ogni caratteristica saliente dell’ambiente sociale del Web, ma solo quelle che sono più in contrasto con i metodi e i processi di lavoro ereditati dal passato ancora fortemente presenti nelle grandi aziende”. Nell’elenco di Hamel troviamo il seguente punto: “il potere viene dal condividere le informazioni, non dal loro accaparramento. Il Web è anche una economia del dono e della  cura reciproca. Per guadagnare influenza e status, devi offrire la tua esperienza e competenza. E devi farlo in fretta, perché, se non lo fai, lo farà qualcun altro che raccoglierà il credito che potrebbe essere stato tuo. On-line ci sono un sacco di incentivi per condividere la conoscenza e pochissimi ad accumularla”.

Dall’Eros all’Engagement

Analogamente, nei termini dello Humanistic Management, la strada che consente di produrre creatività ed innovazione in una Social Organization è quella indicata da Platone nel  Convivio: inizia con l’amore per la conoscenza e conduce alla comprensione che nel prendersi cura  risiede la primaria responsabilità manageriale.

Il contesto drammatico del Dialogo platonico in cui viene tematizzato l’Amore è noto. Alcuni amici, durante il convito che dà il titolo all’opera, danno vita ad una gara di eloquenza: vincerà chi saprà tessere l’elogio più bello di Eros. Fedro lo esalta come agente di aggregazione sociale: “i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a vivere nel bene devono ispirarsi ad Eros…. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una città o un esercito fatti solo da amanti, essi si darebbero certamente il miglior governo che ci sia”. In termini aziendali, questo significa individuare in relazioni interpersonali “erotiche” un fattore di integrazione molto più forte di qualsiasi sistema gerarchico di pianificazione e controllo, perché fondato non solo sulla fiducia, ma ancor più sull’attenzione verso e per l’amato: sulla relazione radicale ed ineludibile con l’altro, che Aristofane evoca con il famoso mito dell’Ermafrodito.

Altri convitati sottolineano poi il ruolo di Eros nella costruzione dell’identità, motore dell’autosviluppo, fino ad arrivare alla sintesi finale di Socrate: Amore è figlio di Poro, l’Abbondanza, e per questo è ricco di coraggio e di inventiva; ma poiché Penia, la Mancanza, è sua madre, mette queste doti al servizio della continua ricerca di ciò che non ha e che brama.

Una ricerca resa possibile in azienda dall’uso intelligente di strumenti di social networking che rendono possibile quella forma di “erotismo aziendale” chiamato Engagement, fondato sulla automa scelta individuale di condividere la Value Proposition con tutti i membri della Community di appartenenza (o dell’impresa in quanto rete di Community), dove ognuno si prende cura dell’altro. In termini più ampi, c’è stato addirittura chi ha definito l’attuale periodo storico come “The Age of Curation”, partendo dal concetto di “Curated computing” riferito al modo in cui il personale di Apple esamina ogni pezzo di software scritto per i dispositivi iPhone OS prima di permetterne (o bloccarne) l’ingresso nell’App Store. Ma basta pensare alla cura che richiede la manutenzione della nostra Pagina Facebook o LinkedIn, il nostro account su Twitter, insomma la nostra presenza su un qualsiasi Social Network, per rendersi immediatamente conto di quanto il concetto di “Curation” sia essenziale per chi vive le dinamiche social. Molti altri esempi sono possibili: fra tutti, pensate alla rivoluzione portata dal web 2.0 nel campo della critica musicale, letteraria, artistica: oggi non siamo più dipendenti dai giudizi espressi da Esperti la cui autorità era fondata su criteri non dissimili dall’”ipse dixit” medioevale. Oggi ciascuno può prendersi cura della propria produzione artistica o dell’artista a cui tiene, utilizzando a questo scopo YouTube, Flicr, Anobii, My Space, eccetera per farla conoscere, diffonderla e anche trarne un profitto (teoria della “Coda Lunga” di Anderson).

Content Curation

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Ecco perchè il tema della Content Curation è centrale per tutti coloro che si occupano di Management 2.0. Con questo termine intendiamo l’attività di identificazione, contestualizzazione e diffusione di un contenuto. I principali social network che utilizziamo favoriscono la Curation, che – dal punto di vista dell’utente – segue questo processo:

Trovo un contenuto interessante;

Identifico i gruppi di persone più interessati;

Condivido con loro (ad esempio attraverso like, share o retweet);

Aggiungo un contesto alla condivisione (ad esempio un commento, una descrizione, una didascalia);

Attivo una conversazione;

Ottimizzo i contenuti per favorire la condivisione attraverso gli strumenti più diffusi e alla portata di tutti come Like e Condividi di Facebook; Retweet di Twitter; Pin di Pinterest; Reblog di Tumblr; Condividi di Instagram.

In parallelo, cresce il fenomeno dell’aggregazione e filtraggio dei contenuti (“Dynamic aggregation“): le persone non solo fruiscono del contenuto, ma definiscono ciò che vedono in modo non esplicito, attraverso i propri comportamenti o in modo esplicito, definendo dei filtri. Nascono così aggregatori diffusissimi come il NewsFeed di Facebook, la tab “discovery” di Twitter o LinkedIn Today. È molto interessante anche la nascita di aggregatori dedicati: uno è Storify, che ha evoluto il proprio servizio presentando la propria idea di “polso del pianeta”: una home page che segnala tutto ciò che è “trending”, indipendentemente dal canale social su cui si svolge la conversazione. In questo quadro va ricordato che già nel 2008 Forrester Research ha introdotto uno strumento chiamato Social Technographics Ladder, che identifica le tipologie di comportamento social proprio focalizzandosi sulle attività di coinvolgimento e curation. La “ladder”, partendo dal basso verso l’alto, individua:

gli spectators (che fruiscono di contenuto social);

i joiners (che utilizzano i social network);

i collectors (che raccolgono contenuto);

i critics (che commentano);

i conversationalists (che interagiscono su social network);

i creators (che creano contenuto).

Oppure pensiamo ad un servizio come Klout, che permette di verificare quale è la propria reputazione online attraverso tre valori chiave: True reach, ovvero quante persone vengono influenzate, Amplification, il valore dell’influenza esercitata, Network impact, la capacità di generare un network tra i contatti. Su questa base Klout assegna al profilo di ogni utente un punteggio da 1 a 100, ma soprattutto l’identificazione con delle sedici categorie generate da una matrice che definisce il suo carattere. Fra i profili di maggiore successo spicca proprio il Curator, che è in grado di influenzare le persone più autorevoli e interessanti perché fornisce contenuti di alta qualità. Nei quadranti più bassi della matrice appaiono invece l’Observer, una persona che probabilmente segue più che proporre, e lo Specialist, che non è ancora una celebrità ma essendo esperto in una certa area, potrebbe diventarlo se sarà in grado di coinvolgere altre persone sui propri interessi . Al di là del valore specifico della metodologia applicata da Klout (assai discutibile ed infatti oggetto di furibondi dibattiti in Rete), questo genere di categorizzazioni diventano utilissime in chiave HR per classificare i membri delle Community aziendali, verificarne le competenze “social”, l’attitudine al lavoro collaborativo, la qualità e la quantità del contributo offerto al raggiungimento degli obiettivi condivisi, eccetera.

Il Content Curator di una Social Organization dunque non può più essere come il Curatore del Mocambo contiano, un locale deve regna l’incomunicabilità, così come accade in quel Mocambo che non a caso è il nome della mensa aziendale della Corporation in cui si svolge l’azione del romanzo collettivo Le Aziende InVisibili:

“Le è mai accaduto di vedere una mensa che assomigli a  questa?”, chiedeva Fordgates a Deckard, indicando con la mano i nuovissimi locali del Mocambo, il ristorante aziendale che era stato appena inaugurato.

“No, ingegnere, mai avrei immaginato l’esistenza di un posto come questo per i dipendenti”, riuscì appena a farfugliare Sam.

L’odore di fritto e di gente     sudata   che      affollava la mensa lo   aveva colpito alla bocca dello stomaco con la forza di un destro sferrato da un    pugile professionista.

In omaggio alla Vision della Corporation, che proclamava    i     pari diritti di fumatori e non fumatori, una nube tossica proveniente dalle  mille sigarette accese si diffondeva ovunque, tanto acre e bruciante che   all’inizio Sam lacrimò copiosamente.

Si fermò sulla soglia ad asciugare gli occhi con un fazzoletto. Recuperata la vista, si fece largo in mezzo a quella nebbia cancerosa, che velava l’accecante bianchezza di quanto lo circondava.

Bianche erano le bottiglie sugli scaffali, bianchi i tavoli, le tovaglie, le posate e le sedie.

I muri erano dipinti di bianco e bianche  erano le   piastrelle del   pavimento.

Bianchissimo era il costume da Pulcinella indossando il quale un noto comico conduceva la nuova puntata dello show aziendale, dal televisore da 54 pollici rivestito in acero accanto alla cassa.

Vasi trasparenti ricolmi di gigli e di rose bianche adornavano i quattro angoli   del  locale.

Lo specchio dietro al banco rimandava l’immagine di un   quadro    appeso alla parete opposta, rappresentante un Pierrot morente di un pallore  estremo, ormai già cadaverico.

Piccoli faretti diffondevano una   luminosità lunare ovunque, dando un tocco di assoluto alla monocromia dominante, quasi che, rappresentando l’assenza di tutti i colori, l’artefice del Mocambo volesse  affermare la loro presenza in negativo, donando loro un’orrida Vita nella    Morte.

Proclama così, del resto, il gran principio della luce, che produce ciascuno dei suoi colori, ma rimane in se stesso sempre bianco o incolore. Entrare in quel ristorante era allora come immergersi in un Nulla che,   nella    sua    indefinitezza, comporta la rinuncia a tutti i segni e coincide con lo spazio lasciato completamente vuoto. Bianco, appunto.

Deckard si accomodò al banco per ordinare, accompagnato da Fordgates. Ben presto, oltre all’impermeabile, dovette togliersi anche la giacca. Come tutti gli altri avventori, sudava.

Nick Snark, responsabile della gestione, teneva la stufa molto alta nei mesi freddi. In compenso, d’estate il condizionatore trasformava il locale in una cella frigorifera.

“Cosa prende, Deckard?”, chiese Fordgates. “Potrebbe provare qualcuna delle Specialità Astro-etniche del nostro nuovo Mastro Chef Adrian. Perché non prova il Profosfàn? O vuole il Mirminèc? Oppure il Tiobroflit? L’Arsopàn in polvere o in miscela?”.

Il Direttore delle Risorse Umane ponderò attentamente la questione. L’uso degli antidepressivi che stava assumendo nel tentativo di risollevare il  livello di un morale giunto negli ultimi tempi ai suoi minimi storici richiedeva alcune precauzioni: una dieta priva di formaggi fermentati e grassi, di pesci salati, di carni conservate e in genere di tutti quegli alimenti che contengono tiramina, per evitare il rischio di crisi ipertensive (i farmaci, gli avevano spiegato, bloccano anche le monoaminossidasi epatiche, che inducono       un aumento dell’assorbimento di tiramina, sostanza in grado di determinare un innalzamento della pressione).

“Un hot dog con tanta senape e un Martini on the Rocks”, rispose.

Ma il barista: “La macchinetta del ghiaccio è rotta”, disse, con la freddezza di uno scacchista. “Niente wurstel, però posso darle dell’albume d’uovo. Invece della senape, del burro fuso”.

“Lascia perdere. Prendo due olive con un Martini Rosso”.

“Abbiamo solo quello Bianco”.

(pp. 211-212)

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