Storia della letteratura elettronica, by Paola Carbone. 3. Codework, ovvero il codice macchina come ready-made

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, l’HTML dinamico (DHTML), i file audio e video, i filmati flash o shockwave fanno con prepotenza ingresso nella comunicazione ipermediale e con essi l’attenzione, che un tempo era riservata alla strutturazione delle informazioni attraverso la rete di lessie (ipertesto), si sposta verso le modalità di fruizione dei contenuti da parte degli  utenti.

Le informazioni sono veicolate da ambienti definiti immersivi, dinamici, performanti in cui l’evento che si realizza nello spazio dello schermo prende il sopravvento sul primitivo uso evocativo della parola. L’artista non pensa più al proprio lavoro in termini di parola, immagine, spazio informativo e collegamento, ma in termine di processo o evento, di cui il lettore diventa parte integrante sulla base di stimoli e risposte che si instaurano tra lui e la macchina.

Qualcuno teorizzò addirittura che le emozioni e le condizioni fisiche dell’utente avrebbero sostituito gli hyperlinks come principale caratteristica estetica e strutturale del testo elettronico. Come vedremo meglio in una successiva puntata di questa “brevissima storia della letteratura elettronica” qualcosa del genere si è in effetti realizzata, ma desidero ora parlare del codework, ovvero di quelle opere che mettono il codice macchina al centro della riflessione poetica.

Ogni volta che ci troviamo davanti a un’opera letteraria digitale dobbiamo tenere bene presente che abbiamo a che fare con due linguaggi: il linguaggio naturale, condiviso da una comunità linguistica locale, e il linguaggio macchina che si pone tra hardware e interfaccia, e che è condiviso da tutti coloro che nel mondo adoperano un medesimo sistema operativo, software o applicazione. Il codice è ciò che sta dietro allo schermo, ma che determina la nostra fruizione dei contenuti.

Come Nam June Paik ha portato la televisione fuori dai salotti di casa per farla diventare un oggetto estetico adatto allo spazio espositivo, così autori come Vuk Cosic e Shulgin per le arti visive, Antye Greie-Fuchs (AGF) per la musica e Alan Sondheim, JODI, Mez (Mary-Anne Breeze), Talan Memmott, Ted Warnell, Brian Lennon, Giselle Beiguelman, Eugene Thacker per la poesia, hanno fatto del codice e del rapporto tra macchina, interfaccia e utente un motivo di riflessione estetica. Essi hanno reso visibile ciò che solitamente è nascosto, sottolineando i meccanismi di produzione di senso che sottostanno alla rappresentazione dei linguaggi naturali sullo schermo.

Cosic_startrek

Vuc Cosic, ASCII Art, dal video di Star Trek

Tra i primi esempi non si possono ignorare i digital graffiti di quegli hacker che facevano poesia utilizzando il “1337 speech”, ovvero il codice di comunicazione degli “1337 hax0r” o “elite hacker”, grazie al quale venivano sostituite le lettere dell’alfabeto inglese con numeri o segni dei linguaggi di programmazione (soprattutto ASCII), in base a principi di assonanza o somiglianza tipografica. Ad esempio: “l” o “i” diventa “1”, “e” diventa “3”  e “t” diventa “7” perché esteticamente affini da cui  “1337 [leet] hax0r” >  “elite hacker.” Le regole che si erano imposti questi poeti del codice non erano poi così diverse dai vincoli che gli artisti dell’OULIPO si erano dati per i loro lavori. Inutile dire che i testi, come il seguente, non sono di immediata decodifica:

SINCE THE LETTUR SUBSTITUSHUNZ CAN BE AU2M8D. THURE ALSO EXISTZSIMPLE TEXTF1LTUR SOFTWARE—LIKE THE THE MANEFRA1M O/Z F1LTUR B1FF—WH1CH TRANS4MZ STANDARD ENGLISH WR1T1NG IN2 733T SPEECH.

Interessante è il lavoro Alan Sondheim. Egli prende linee di comando di UNIX  e le considera letteralmente nel loro valore formale, facendole diventare testi da leggere a voce alta durante performance che personalmente mi ricordano le cene futuriste:

“From: Alan Sondheim <sondheim@panix.com>
To: _arc.hive_@lm.va.com.au
Date: Thu, 9 Jan 2003 17:17:20 -0500 (EST)
sleeping and running zombies through bodies
CPU states: 4.7% user, 5.8% system, 0.0% nice, 89.4% idle:36 processes:
35 sleeping, 1 running, 0 zombie, 0 stopped:1m 4:20pm up 8 min, 1 user,
load average: 0.54, 0.26, 0.11: :Mem: 38664K av, 35084K used, 3580K free,
14956K shrd, 15080K buff Write vaginas through my CPU states: 4.7% user,
5.8% system, 0.0% nice, 89.4% idle! CPU states: 4.7% user, 5.8% system,
0.0% nice, 89.4% idle:36 processes: 35 sleeping, 1 running, 0 zombie, 0 …”

Ovviamente questi testi non sono elettronici, ma trovano la loro origine nel digitale. Gli autori hanno fatto prevalere la funzione poetica del linguaggio su quella referenziale o fatica, creando poesia a tutti gli effetti. Uno dei meriti di Sondheim è stato quello di definire una tassonomia di tre tipi di codework: 1. “Works using the syntactical interplay of surface language”; 2. “Works in which submerged content has modified the surface language”; 3. “Works in which the submerged code is emergent content.”  

Anche John Cayley con i suoi testi generativi può essere definito un autore di codeworks, in quanto le sue opera vivono dell’algoritmo che le determina, ma a mio avviso sono Mez e Talan Memmott che meglio interpretano la scrittura poetica in ambiente digitale come per esempio la creazione di un creolo tra inglese e codice, che è stato definito da Florian Cramer ‘post-combinatorio’.

Mez ha fatto del suo m[ez]ang.elle la cifra stilistica della net.wurked language. Prende in prestito e manipola elementi della programmazione come parentesi, due punti, slash, trattini, e double pipe (||), unendoli al gergo della net-language allo scopo di adattare la lingua inglese allo  stile colloquiale tipico della cultura hip-hop o dei gruppi giovanili urbani. Ecco allora che “2 4m a text” sta per “to form a text”. Questo è un esperimento formale, che mira a moltiplicare il valore semantico di ogni segno e a fare riflette sul medium e sulle sue potenzialità artistiche. L’autrice racconta così gli scopi della sua poetica:

2 uze computer kode kon.[e]vent.ionz spliced with irc emoticons and ab[scess]breviations….
2 spout punctu[rez]ationz reappropri.[s]ated in2 sentence schematics….
2 illustrate the x.pansion of software potentialities of co:d][iscours][e in an environment x.clusively reliant on it.
[dal sito di Mez http://netwurkerz.de/mez/datableed/complete/index.htm]

La strategia di Mez è quella di disturbare, disorientare, defamiliarizzare il lettore e i contenuti individuando strategie di comunicazione che siano sempre più criptiche e imprevedibili. Proprio per l’universalità dei linguaggi di programmazione, il suo idioletto è tanto gergale quanto globale per chi utilizza la tecnologia digitale.  

Se la letteratura ha sempre perseguito l’obiettivo di una mimesi del prodotto (letteratura realista) o del processo (letteratura postmoderna, metanarrativa), qui l’attenzione è attirata sulla mimesi del mezzo di comunicazione, e quindi sull’interazione tra uomo e macchina. Questo è peraltro il tema di un vero capolavoro, a mio parere, della narrativa elettronica ovvero Lexia to Perplexia di Talan Memmott.

Quest’opera, che si può leggere in rete [http://tracearchive.ntu.ac.uk/newmedia/lexia/], nasce da una lezione che Memmott teneva disegnando su una enorme lavagna le sue teorie sul rapporto uomo-macchina.

  Carb lexia_lavagna

Da Talan Memmott, Lexia to Perplexia > Exe.Termination

Memmott ci dimostra che il computer non è un mezzo di trasmissione di immagini o di file multimediali, ma di testo codificato nel codice binario 01. Così facendo, l’autore ci obbliga  a ragionare sull’origine di un linguaggio che l’interfaccia ci rende fin troppo famigliare: in un gioco di inversione ironica, il codice diviene parte della scrittura  e l’immagine un testo. E’ curioso come proprio in questi giorni la pubblicità dell’ipad punti sulla scomparsa della percezione della tecnologia quale valore aggiunto del prodotto in vendita (Apple iPad 2 – Spot Tv Italia – Questo è ciò in cui crediamo -Ottobre 2011): l’argomento è di particolare interesse, ma ci porterebbe troppo lontano. Di fatto però Memmott e i code-poets non fanno che sottolineare il problema su cui McLuhan aveva cercato di attirare la nostra attenzione, ovvero al fatto che la tecnologia è da intendersi come una protesi di cui dimentichiamo la presenza diventando i suoi servi meccanici.

In Lexia to Perplexia non c’è una storia come la intendiamo solitamente quando parliamo di un romanzo, né personaggi, né dialoghi. L’autore utilizza i miti di Eco e Narciso per descrivere appunto il rapporto tra uomo e macchina, e come il  processo comunicativo all’epoca di internet avvenga attraverso terminali (I-terminals) costituiti da soggetti che non sono identificabili con i self ma con Cell.f, ovvero nuove entità postumane definite dall’unione del self con il computer e il sistema di comunicazione internet, vale a dire con l’hardware e con altri I-terminals remoti.

Memmott ci dice che così come Eco, innamorata di Narciso, poteva solo rispondere alle domande che le venivano poste, ma non poteva dichiararsi apertamente a Narciso che non contraccambiava il suo amore, così la macchina non vive senza l’interazione con l’utente. Analogamente, il Cell.f necessita di consapevolezza circa il mezzo che sta utilizzando, per non farsi fagocitare nell’imbuto (funnels) della rete, inconsapevole della sua nuova identità.

Il titolo dell’opera si riferisce al passaggio dalla lessia a una narrazione che si basa su eventi inaspettati che creano perplessità nel lettore. Il link di storyspace è sostituito da semplici passaggi del mouse o da qualche click su oggetti diversi dello schermo. Il testo è di particolare difficoltà interpretativa, e ad ogni schermata si realizzano delle condizioni talmente imprevedibili che spesso solo affidandosi a un metodo abduttivo si riesce a fare chiarezza e a decodificare i rebus verbo-visivi che l’autore ci propone. Tuttavia, appena entrati nella logica del testo, leggere Lexia to Perplexia dà la stessa soddisfazione e si vive la stessa sospensione estetica di un sonetto shakespeariano.

Forse non a torto Rita Raley ha parlato dei codework come di moderni ready-made, visto che siamo immersi nella cultura digitale e che i codici sono ovunque…

Vedi i precedenti capitoli:

 La letteratura generativa

 L’ipertesto ovvero un patchwork di spazi concettuali

 

 

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