Marco Risi, Fortapache, 2009

La città occupata
Esistono ed operano due tipologie umane e operative di giornalisti: i giornalisti “giornalisti” e i giornalisti “impiegati”. I primi sono autodiretti, capaci di ascoltare le proprie voci interne e le voci del mondo, profondamente innamorati del loro mestiere e in questo senso nè coraggiosi nè paurosi, solo donne e uomini veri, curiosi, capaci di stupore e insieme di indignazione. I secondi, i giornalisti impiegati, sono eterodiretti, disciplinariamente disposti a sottoporsi ad un controllo invisibile ma non per questo meno reale e cogente, addomesticati passacarte, orientati ad ossequiare un padrone tanto silenzioso e misterioso quanto presente.


I primi negli attesi imprevisti colgono il segno di uno spazio di azione e di verità, i secondi negli attesi imprevisti colgono le indicazioni per un conformismo tanto interno quanto dettato da un misterioso altro. Questa in sintesi la lezione di vita che Sasà – il responsabile del distaccamento de Il Mattino, quotidiano di Napoli, a Torre Annunziata, fa sulla spiaggia periferica del golfo napoletano con un mare meraviglioso davanti, calpestando rifiuti di ogni sorta – rivolge a Giovanni Siano, suo giovane collaboratore, cronista di mala gettato nella guerra tra famiglie camorrriste rivali  che contendono tra di loro il controllo del territorio di Torre Annunziata e dello spaccio della droga. La m.d.p. di Marco Risi, con uno sguardo secco, essenziale, senza concessioni a sbavature sentimentali, costruisce un romanzo di formazione nel quale un giovane ventitrenne, cronista precario, delitto dopo delitto costruisce la rete di una sequenza orribile, impensabile di orrori, di sangue, di sparizione di ogni pietà umana, dentro un gorgo di odio, di danaro e di collusione delle pubbliche istituzioni. Non è un eroe, Giovanni; è solo innamorato del suo mestiere, inesauribilmente curioso, e fedele alla sua terra della quale sogna una emancipazione e uno sviluppo. E’ dotato, Giovanni, di una autoironia sottile che lo porta a derubricare il suo ruolo e la rilevanza, talvolta, di quello che va scoprendo. Transita leggero nella scia crescente di orrori pensando tra sè che tutto potrebbe anche prendere una prospettiva ed una dimensione diversa, salvifica per quei suoi luoghi, per quella sua gente.  Ha anche paura, un senso di morte crescente che lo attanaglia nell’ultima parte del racconto e lo accompagna insieme alla musica di Vasco Rossi. Poi si ritrova, in una sera d’estate, schiacciato nella sua utilitaria contro due pistole puntate alle quali sa rispondere con uno sguardo, si era tolto poco prima gli occhiali, insieme sorpreso e dignitoso e muore così, forse inutilmente, pensiamo noi spettatori uscendo dalla sala cinematografica nel primo sole di primavera, riflettendo che il film civile di Risi narra di una tragedia occorsa nella prima metà degli anni ’80 e che come purtroppo tutto è rimasto uguale o forse tutto è peggiorato.

Giuseppe Varchetta