La città palazzo

Pino Varchetta: Il Divo (regia di Paolo Sorrentino)

Il potere non vive nella città. Non la attraversa, non la calpesta, non si fa contaminare dall’aria che i cittadini normali respirano, ignora della città le strutture, le reti, i luoghi di convegno, i luoghi solitari. Il potere abita il palazzo, chiuso in grandi stanze ermetiche, con porte ma senza finestre, nelle quali il potere riceve. Ascolta il potere quasi assonnato, apparentemente assente, capace di registrare, all’opposto, ogni palpito, ogni batter di ciglia, ogni vocalizzo, e capace di registrare tutto in una memoria onnipotente quanto assurda, che separa fatti da emozioni, i corpi dalle anime.

Il Divo è un uomo politico del nostro Paese, presente sulla scena politica dal 1946, interprete simbolo di una rivoluzione mai avvenuta, di una fondazione dichiarata ma mai consolidata, di un progresso urlato ma mai avviato, di una giustizia legiferata ma mai agita. Il Divo non ricerca la verità, è nemico della verità, che considera produttrice di complessità, di caos, di disordine. La verità crea le separazioni, i conflitti e genera distanze tra le donne e gli uomini, nel suo tentativo di riconoscerne peculiarità e differenze. La non verità, la bugia, la menzogna sono le forze che tengono insieme la società, che la corroborano, che la nutrono quotidianamente: la società civile è infatti finzione, balletto, incontro tra padroni e clienti, sopruso quotidiano nel quale la bellezza delle esistenze umane viene offesa, sedata nei suoi slanci vitali e ogni fecondità è ricondotta al grigiore della mediocrità prescritta dal Divo. Le ore delle lunghissime giornate del potere trascorrono tutte nel palazzo, in sé una città turrita, controllata, difesa da guardiani invisibili ma onnipresenti. Il Divo lascia il palazzo solo raramente e nelle ore notturne per camminare solo – la scorta rispettosa e insieme guardinga, si tiene a debita distanza, davanti e dietro la macchina blu di Stato – lungo la solita via dove non transita nessuno, un’appendice della casa palazzo, dove il Divo abita con la moglie silenziosa e la fedele segretaria, unica voce di connessione tra il Divo e il resto del mondo. Una sera – una delle immagini più straordinarie di questo film, tutto straordinario – davanti a uno schermo televisivo il Divo e la moglie siedono, tenendosi teneramente la mano, commossi dalla voce di un cantante per così dire pop, che canta “I migliori anni della nostra vita”. E’ l’unico momento nel quale il Divo si emoziona, evocato da una melodia sinuosa e da un testo pressoché adolescenziale. E’ questa la discesa culturale alla quale il potere del Divo ha costretto il nostro Paese, dissolvendo ogni capacità di fondazione di un’autentica coscienza civile, nella quale confronto e ascolto potrebbero nutrire un vero cambiamento. Il linguaggio del film di Sorrentino è surreale; sembra di vivere una storia fuori dal tempo, dentro palazzi del potere collocabili anche in secoli diversi; ma contemporaneamente è un linguaggio che, accumulando surrealtà su surrealtà, genera un’attualità assoluta di un verismo inconfutabile, che dipinge più profondamente e analiticamente di opere dichiaratamente drammaturgiche, lo squallore della cultura nazionale che il Divo ha contribuito impareggiabilmente a generare. Immobilismo, pessimismo, intelligenza sono un mix scatenante l’indole del Divo, che nella presunzione di conoscere profondamente la natura umana, la costringe a lunghi transiti sonnolenti, torbidi, durante i quali i cuori delle donne e degli uomini si induriscono, si ammalano e perdono, forse per sempre, il principio di quella speranza. Il Divo crede nel Dio cristiano, credente, praticante, a suo modo osservante. La macchina da presa esplora, quasi atterrita, questo rapporto tra il Divo e il suo Creatore e ne registra i toni, la “tenerezza”, e quella striscia risuonante di autoassoluzione lungo la quale il fine giustifica ogni modalità, ogni pratica.

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